giovedì 31 maggio 2018

Mektoub, My Love - Canto Uno

"Mektoub, My Love - Canto Uno" (Mektoub Is Mektoub) di Abdellatif Kechiche. Con Shain Boumedine, Ophélie Baufle, Salim Kechiouche, Lou Luttiau, Alexia Chardard e altri. Francia 2017 ★★★★
Come ben sa chi mi conosce, nemmeno i tedeschi, rimanendo in ambito europeo, riescono a darmi sui nervi per il loro modo di comportarsi, parlare, muoversi e pensare quanto i francesi, ovviamente in senso molto generale e con le dovute eccezioni; anche chi di loro è di origini maghrebine o di qualche altra landa, compresa l'Italia, perché si tratta di un modo di essere e, soprattutto rappresentarsi, che sembra acquisirsi assieme alla cittadinanza, motivo per cui ero molto perplesso di andare a vedere questo ennesimo film transalpino, specie alla luce di due recenti esperienze che mi avevano indispettito non poco; ma quando ho fatto mente locale che il regista , Abdellatif Kechiche, era lo stesso del poderoso La vita di Adèle mi sono fidato e ho fatto bene. Senza raggiungere le vette di quel film, Mektoub, My Love conferma tutte le caratteristiche magiche del cinema di questo autore, valente creatore di atmosfere, suggestioni, immagini magnetiche, che hanno la capacità di alterare la percezione del tempo perché capaci di farvi immergere lo spettatore senza che questi si renda conto della sua durata, poco meno di tre ore, per di più straordinariamente cariche di suoni, colori e parole. La storia di per sé non esiste: si tratta semplicemente di seguire il protagonista, Amin, un ragazzo sui vent'anni che vive a Parigi dove aveva cominciato a studiare medicina per poi abbandonare la facoltà e dedicarsi a tempo pieno alla sua passione per la fotografia e il cinema, che torna nel Sud del Paese, a Sète, suo luogo d'origine, per terminare una scenografia che aveva in mente e trascorre un periodo di vacanza in piena estate nel suo ambiente. Lì ritrova l'amica di infanzia Ophélie, la quale  accudisce pecore e capre, che scopre avere una relazione con Toni, cugino sciupafemmine di Amin, nonostante sia fidanzata con Clément, un militare che è in servizio all'estero; con Toni conosce Charlotte e Céline, due ragazze di Nizza in vacanza, che entrano subito a far parte del "giro": in realtà Toni corteggia chiunque anche per mascherare la tresca con Ophélie, che in realtà è l'unica che gli interessi realmente, e la telecamera si muove dietro ad Amin nelle sue visite all'amica (magistrale e commovente la scena in cui si apposta nell'ovile a fotografare la nascita di due agnelli), durante i lunghi pomeriggi in spiaggia, le confidenze con lei, le battute con amici e parenti, spesso personaggi strampalati ma mai delle macchiette, le serate al ristorante di famiglie, le nottate in discoteca. Ci si cala in un universo prevalentemente franco-tunisino tutto particolare, emancipato eppure con qualche traccia tradizionalista, e comunque perfettamente integrato come spesso accade in alcune città del Midi, ma il viaggio che Kechiche riesce a far compiere attraverso gli occhi di Amin è quello nella prima giovinezza, in tutti i suoi aspetti più veri e banali, e il miracolo che compie, almeno è l'effetto che ha di me, è di incatenare lo spettatore alla poltrona benché il film abbondi in verbosità e in un parlarsi addosso tipicamente francese, in immancabili scene di ballo, pure in discoteca con relativa colonna sonora urticante, che generalmente detesto, in chiacchiericcio futile. E' un film sensuale, dove l'erotismo ha un grande ruolo pur non essendo mai sconcio: l'unica scena di nudo e leggermente spinta, ma mai fastidiosa, è quella iniziale; è un film di corpi, spesso pressoché nudi però mai volgare e guardone; è un film che ha una sua poesia e un suo perché anche se è lieve, e ci si affeziona al modo affettuoso, semplice, discreto che Amin ha nel tornare nel suo ambiente, alla sua sensibilità che esprime con sguardi, parole e gesti. Non ho idea se gli interpreti siano attori professionisti o meno, in ogni caso danno vita a personaggi autentici, credibili, vivi e considerato che sono pressoché sempre inquadrati in primo piano o sono bravi o sono semplicemente sé stessi.

martedì 29 maggio 2018

Compleanno

Tempus fugit - Salvador Dalí
Il tempo prezioso delle persone mature

Ho contato i miei anni ed ho scoperto che ho meno tempo da vivere da qui in avanti di quanto non ne abbia già vissuto.
Mi sento come quel bambino che ha vinto una confezione di caramelle e le prime le ha mangiate velocemente, ma quando si è accorto che ne rimanevano poche ha iniziato ad assaporarle con calma.
Ormai non ho tempo per riunioni interminabili, dove si discute di statuti, norme, procedure e regole interne, sapendo che non si combinerà niente.
Ormai non ho tempo per sopportare persone assurde che nonostante la loro età anagrafica, non sono cresciute.
Ormai non ho tempo per trattare con la mediocrità. Non voglio esserci in riunioni dove sfilano persone gonfie di ego.
Non tollero i manipolatori e gli opportunisti. Mi danno fastidio gli invidiosi, che cercano di screditare quelli più capaci, per appropriarsi dei loro posti, talenti e risultati.
Odio, se mi capita di assistere, i difetti che genera la lotta per un incarico maestoso. Le persone non discutono di contenuti, a malapena dei titoli.
Il mio tempo è troppo scarso per discutere di titoli.
Voglio l’essenza, la mia anima ha fretta…
Senza troppe caramelle nella confezione…
Voglio vivere accanto a della gente umana, molto umana.
Che sappia sorridere dei propri errori.
Che non si gonfi di vittorie.
Che non si consideri eletta, prima ancora di esserlo.
Che non sfugga alle proprie responsabilità.
Che difenda la dignità umana e che desideri soltanto essere dalla parte della verità e l’onestà.
L’essenziale è ciò che fa sì che la vita valga la pena di essere vissuta.
Voglio circondarmi di gente che sappia arrivare al cuore delle persone…
Gente alla quale i duri colpi della vita, hanno insegnato a crescere con sottili tocchi nell’anima.
Sì… ho fretta… di vivere con intensità, che solo la maturità mi può dare.
Pretendo di non sprecare nemmeno una caramella di quelle che mi rimangono.
Sono sicuro che saranno più squisite di quelle che ho mangiato finora.
Il mio obiettivo è arrivare alla fine soddisfatto e in pace con i miei cari e con la mia coscienza. Spero che anche il tuo lo sia, perché in un modo o nell’altro ci arriverai.

Mário de Andrade – Poeta, romanziere, saggista e musicologo brasiliano, 1893-1945

domenica 27 maggio 2018

Il Piano B

Sergio Mattarella riceve istruzioni dai Mercati

Articolo 90. Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri.
Fossi in Di Maio e Salvini, chiederei l'incriminazione e le dimissioni di Mattarella, per cui la sovranità da difendere è quella dei MERCATI e delle istituzioni UE e gli interessi da tutelare quelli degli investitori esteri (non gli interessi dei risparmiatori italiani, fottuti a decine di migliaia dalle banche sostenute e foraggiate dai governi precedenti) e proporrei Paolo Savona al Quirinale.
Ci tengo a ricordare che né il programma del cosiddetto e abortito "governo di cambiamento", né quello del M5S prevedevano l'uscita dall'euro, né l'abrogazione o revisione della legge costituzionale 1/2012 voluta dal governo Monti la quale, disponendo l'obbligo del pareggio di bilancio nell'ambito dell'adesione alla moneta unica, "costituzionalizzò" la forzata limitazione della nostra sovranità e che pure erano stati cavalli di battaglia del M5S non ancora istituzionalizzato: modifica alla Costituzione in aperto conflitto con lo spirito della stessa, e non prevista da alcun programma di governo sottoposto all'elettorato.

sabato 26 maggio 2018

Lascia o raddoppia


Ammetto che seguo con scarsissima attenzione le vicende politiche romane e il tentativo da parte del presidente del Consiglio incaricato Giuseppe Conte, del cui discorso di mercoledì sera ho però apprezzato, sicuramente più che dei suoi predecessori degli ultimi trent'anni, toni e contenuto del discorso all'uscita dell'incontro con Mattarella, di formare un governo M5S-Lega, meno che mai le penose farneticazioni sul suo curriculum da parte di schiere di sedicenti giornalisti e politologi che hanno dato ampia prova di non essere nemmeno in grado di capire un semplice testo scritto in lingua italiana. Ora, col veto che il capo dello Stato pare aver posto sul nome di Paolo Savona come ministro dell'Economia per le sue posizioni critiche, assunte in tarda età, sull'impianto dell'euro, dimentico delle sviste sue e dei suoi predecessori su tanti altri personaggi diventati ministri di questa repubblica pagliaccesca, e di cui Marco Travaglio ci offre oggi un florilegio, mi permetto di suggerire a Di Maio e Salvini, sempre ammesso e non concesso che intendano provare per davvero a formare un governo, di cui hanno ben diritto di scegliere gli interpreti, di sparigliare le carte ritirando la candidatura dell'anziano e discusso economista raddoppiando la posta e proponendo due nomi ancora più pesanti e dirimenti: Nino Galloni, di cui ho una grande stima, e Alberto Bagnai, che peraltro Salvini ha candidato a Firenze contro Renzi al Senato, per vedere di nascosto l'effetto che fa. E, soprattutto, se fanno sul serio.

mercoledì 23 maggio 2018

Dogman

"Dogman" di Matteo Garrone. Con Marcello Fonte, Edoardo Pesce, Francesco Acquaroli, Adamo Dionisi, Alida Baldari Calabria, Nunzia Schiano, Gianluca Gobbi e altri. Italia 2018 ★★★★½
Matteo Garrone non è un autore particolarmente prolifico, in compenso non sbaglia un film, e innanzitutto non sbaglia mai interpreti, e questo suo ultimo lavoro, che trae spunto da un noto fatto di cronaca della fine degli anni Ottanta, lo conferma: Marcello Fonte, che impersona il canaro, è appena stato premiato come miglior attore per una prestazione eccezionale a Cannes, ma non gli sono da meno gli altri, che semplicemente hanno ruoli non così centrali nell'economia del film ma per nulla secondari, perché è il contorno, fisico come umano, a dare l'imprinting alla pellicola, come sempre nel caso del regista romano, più che la storia in sé. Che a prescindere da qualsiasi altra considerazione, andrebbe vista non fosse altro che per la fotografia, magistrale. La vicenda che l'ha ispirata è il delitto, particolarmente efferato, del canaro della Magliana, avvenuto agli inizi del 1988 a Roma, trasposto al giorno d'oggi sul devastato Litorale Domizio che Garrone aveva già usato come sfondo per Gomorra e L'imbalsamatore, in particolare il Villaggio Coppola a Pinatamare e il Parco del Saraceno, nei dintorni di Castel Volturno: casi eclatanti dell'abusivismo edilizio che ha sfigurato tutta la zona. In un vasto piazzale decadente e a tratti diroccato che però conserva qualcosa di metafisico alla De Chirico, si racchiude tutta la vita di Marcello, un ometto mite che di mestiere fa il toelettatore per cani, con cui ha un rapporto speciale, come con la figlioletta Sofia, con la quale trascorre i rari momenti in cui l'ex moglie gliel'affida portandola a fare immersioni subacquee ad esplorare i fondali e la fauna marina. In una realtà degradata, tra una sala slot, una trattoria, un Compro Oro che ha la vetrina in fianco a lui, cerca e riesce a farsi benvolere da tutti, e svolge anche l'attività di piccolo spacciatore di cocaina: in particolare è il fornitore di Simoncino, l'ottimo ed irriconoscibile Edoardo Pesce, un ex pugile violento, paranoico e prepotente che è terrorizza tutto il paese e ne è detestato ma non da lui, e con cui Marcello ha un rapporto di dipendenza più psichica che fisica e che compiace al punto di accettare di subire un anno di reclusione al posto suo pur di non denunciarlo per una rapina che aveva fatto utilizzando proprio il negozio del canaro. Perfino quando esce dalla galera quest'ultimo rimane conciliante e si limita a chiedergli quantomeno un risarcimento, ma Simoncino non ci sente e, dopo l'ennesima violenza, questa volta anche fisica, da parte dell'energumeno, l'ometto si ribella escogitando una vendetta che è la più classica applicazione della legge del contrappasso. Fin qui la trama, a sommi capi, con la segnalazione che il film è molto meno cruento di quel che si possa immaginare, e che l'epilogo è in linea con quella fusione tra realtà cruda e aspetto onirico che caratterizza i lavori di Garrone. Però non è questo il punto essenziale, ma quanto e soprattutto il come il regista riesca a far fluire il racconto attraverso le immagini più ancora che per mezzo dei dialoghi. Un film eccellente, di cui raccomando la visione. 

lunedì 21 maggio 2018

E' iniziata la stagione di Autan e zampirone


Concluso ieri sera il campionato con una fortunata quanto sorprendente vittoria in trasferta a Roma della Beneamata che, battendo la Lazio, le ha soffiato sul filo di lana (negli ultimi 10' di un incontro combattuto ed emozionante quanto tecnicamente scadente) la qualificazione ai gironi di Champions League, vendicando almeno in parte l'onta del 5 maggio del 2002 e vanificando all'ultimo momento l'esalazione già in gola del puntuale sospiro da almeno sei anni a questa parte: "mai una gioia", con l'entrata del sole nel segno dei gemelli inizia ufficialmente la stagione estiva, e quindi della fjaka, almeno calcisticamente parlando: perché assistere ai Mondiali senza che vi sia coinvolta la Nazionale è un po' roba da guardoni, che osservano gli eventi dal buco della serratura. E, con l'inizio della stagione estiva, immancabile l'accensione del primo zampirone e la messa in uso di due altri strumenti indispensabili alla sopravvivenza come alla difesa, l'Autan e l'apposita paletta, detta anche il cupa-muschi, in una guerra impari che ogni anno combattiamo inutilmente contro gli insetti più fastidiosi e, in alcuni casi, pericolosi: le zanzare, i pappataci, le mosche, le vespe e i calabroni. Vivendo in mezzo al verde, pressoché in campagna, ho la fortuna di potermi avvalere di alcuni alleati che qui abbondano: colonie di pipistrelli, ragni, lucertole e rospi, ma per quanto li foraggi e offra loro volentieri ospitalità, e nonostante l'utilizzo dei mezzi di dissuasione di produzione umana di cui sopra, so fin da ora che è una causa persa in partenza fino all'arrivo dei primi veri freddi, e che l'unica speranza consiste nella limitazione del danno. Per ora ho visto poche zanzare (scarseggiavano anche l'anno scorso, dalle mie bande) e relativamente poche mosche, mentre mi pare abbondino le vespe; in compenso di api in giro se ne vedono sempre di meno, e questo come si sa è un pessimo segno. La caccia agli insetti: in ogni caso qualcosa da fare per mantenersi attivi nei lunghi, desolanti e accaldati pomeriggi e serate da qui a settembre inoltrato, prima che la nuova stagione calcistica entri nel vivo con i primi incontri di cartello e inizino le coppe europee, ché i quotidiani deliri sul mercato tra gazzette e TV li lasciamo volentieri ai deboli di mente. 

sabato 19 maggio 2018

Il dubbio - Un caso di coscienza

"Il dubbio - Un caso di coscienza" (Bedoone tarikh, bedoone emza/No date, no signature) di Vahid Jalilvand. Con Navid Mohammadzadeh, Amir Aghae, Hedityeh Tehrani, Zakieh Behbahani, Saeed Dakj e altri. Iran 2017 ★★★★
Da tempo il cinema mediorientale, e iraniano in particolare, o almeno quello che arriva sui nostri schermi, sempre di ottima qualità, si interroga su alcune semplici questioni morali di fondo che raramente vengono affrontate dalle nostre parti nella loro concretezza: cosa è bene e cosa è male e quanto la capacità di scelta, e dunque assunzione di responsabilità ed eventuali omissioni, possa ripercuotersi sulla vita altrui e avere comunque delle conseguenze imprevedibili per chiunque ne sia coinvolto. Qui abbiamo uno stimato medico legale che una sera con la sua auto urta inavvertitamente la motocicletta con a bordo un'intera famiglia di umili condizioni: padre, madre, una neonata e un ragazzino di otto anni. E' quest'ultimo che batte la testa ma a un primo esame da parte del medico, per quanto meticoloso, non sembra aver subito conseguenze. Quest'ultimo insiste perché vadano in ospedale e dà al padre del ragazzino, che accetta malvolentieri, il denaro per riparare il motorino e per le eventuali spese di ricovero, ma evita di chiamare la polizia perché si accorge di non essere in regola col pagamento dell'assicurazione della sua automobile. Andandosene, nota anche che la famigliola non si reca al vicino ospedale che aveva loro indicato, ma il giorno dopo, all'obitorio, viene portato il corpo di quello stesso ragazzino, e il dottore si eclissa e non facendosi vedere dai genitori e lascia fare l'autopsia a un'altra dottoressa, sua moglie, che lo vede scosso, e a cui nulla aveva detto dell'incidente della sera prima la quale stabilisce che causa del decesso sia un caso di botulismo da intossicazione alimentare. Il dubbio che attanaglia il medico è se la causa immediata, a prescindere dal botulismo in atto, non possa essere stato un trauma cervicale da lui sottovalutato al primo esame al momento dell'incidente, da qui il senso di colpa fino a fare riesumare la salma per eseguirla, giorni dopo, lui stesso; ma il senso di colpa, assieme alla vergogna per la propria indigenza, assale anche il padre del ragazzino, accusato dalla moglie di avere avvelenato il figlio dandogli da mangiare del cibo avariato, dopo aver comprato a un prezzo irrisorio delle carcasse di pollo dal dipendente di un macello, scartate perché avariate, dando via a un susseguirsi di azioni che lo portano in carcere, mentre il medico alla fine ammette sia davanti alla moglie, sia come testimone al processo che vede il padre del ragazzino imputato di omicidio del venditore abusivo di polli infetti, la propria pusillanimità per non aver agito prima. Solida ed essenziale sceneggiatura, ottime e credibili interpretazioni, il regista dirige il tutto con mano sicura per un risultato più che egregio, consentendoci di gettare uno sguardo su una società  di cui sappiamo poco perché troppo viene taciuto o falsificato e che molto ha in comune con la nostra.

giovedì 17 maggio 2018

Manuel

"Manuel" di Dario Albertini. Con Andrea Lattanzi, Francesca Antonelli, Giulia Elettra Gorietti, Raffaella Rea, Renato Scarpa, Giulio Baranek, Alessandro Di Carlo, Monica Carpanese, Renato Scarpa a altri. Italia 2017 ★★★★★
Artista polivalente, fotografo, musicista e documentarista che si è sempre occupato di realtà marginali e degradate, Dario Albertini esordisce nel lungometraggio con un film mirabile, eccezionale per le semplicità del racconto e l'immedesimazione che provoca nello spettatore, dovuta anche all'accurata scelta di interpreti così bravi e in ruolo da dare l'impressione di essere stati presi per strada a mettere in scena la propria vita, in particolare Andrea Lattanzi, a sua volta alla prima prova da protagonista. E che protagonista, dato che la macchina da presa lo segue dall'inizio alla fine del film, e per un buon terzo della sua durata è ripreso in primissimo piano mostrandosi sempre perfettamente naturale, cosa difficile da reggere anche per un attore scafato e di lungo corso, figurarsi per i plotoni di televisionati e raccomandati che abbondano nell'ambiente (nazionale e no). Manuel, appena compiuta la maggiore età, è in procinto di abbandonare la casa-famiglia gestita da religiosi dove è stato cresciuto da quando la madre Veronica è finita in carcere, dove ha da scontare ancora due anni di pena: potrebbe fare richiesta di usufruire dei domiciliari soltanto nel caso che il figlio accettasse di prendersi la responsabilità di accudirla dimostrando ai servizi sociali di esserne convinto e in grado di farlo, e il film racconta questo percorso del ragazzo nei pochi giorni che vanno dall'abbandono della casa d'accoglienza, dove ha ricevuto un'educazione nei limiti del possibile (nel passato ai ragazzi veniva insegnato un mestiere sicuro, oggi non ve n'è più la possibilità) ma ha anche dato molta disponibilità, intrecciando rapporti intensi sia con gli altri ragazzi (per molti una specie di fratello maggiore) sia col personale, all'udienza presso il tribunale di sorveglianza che deve dare il benestare alla concessione della custodia domiciliare alla madre: in questo brevissimo lasso di tempo Manuel deve reimparare a muoversi nel mondo esterno, prenderne le misure, valutare le proprie capacità di adattarvisi, in poche parole passare dall'adolescenza all'età adulta in una realtà che oltre a essergli estranea è pure quella dei desolanti casermoni-dormitorio lungo il Litorale romano. Nell'arco di una settimana deve pulire e risistemare l'appartamento ancora sottosopra dall'irruzione dei carabinieri di cinque anni prima, incontrare l'avvocato che lo istruisce sul comportamento da tenere e le risposte da dare durante il colloqui con l'assistente sociale, con la quale Manuel giocherà la carta della sincerità che risulterà più che convincente; avrà degli incontri che gli saranno da faro, altri che lo tenteranno sia con la cocaina, sia facendogli intravvedere facili alternative di guadagno: lo seguiamo man mano mentre è assalito dai dubbi sull'essere in grado di affrontare la situazione e di essere lui il sostegno per la madre e dalla relativa ansia, assistendo anche a un attacco di panico così verosimile da sembrare vero (non è escluso che lo sia, tale è l'identificazione che riesce a Lattanzio col suo personaggio), così come tutto il film potrebbe sembrare un documentario: di sicuro è in grado di coinvolgere ed emozionare profondamente come se lo fosse. Certo: siamo nel solco del miglior neorealismo, ovviamente attualizzato, il terreno più alto, ma non il solo, in cui si muove certo nuovo cinema italiano che pure esiste e merita di avere maggiore sostegno. Sono però sicuro che il pubblico sarà capace di premiare adeguatamente questo piccolo grande film, importante per quello che è e quello che dice al di là del fatto di segnare l'esordio di un "nuovo" regista e la nascita di una "nuova" star, che comunque ho la certezza saranno in grado di gestirsi in modo tale da non guastarsi. Da non perdere.

martedì 15 maggio 2018

Loro 1 e 2

"Loro" 1 e 2 di Paolo Sorrentino. Con Toni Servillo, Elena Sofia Ricci, Euridice Aspen, Riccardo Scamarcio, Kasia Smutniak, Fabrizio Bentivoglio, Dario Cantarelli, Anna Bonaiuto, Ricky Memphis, Roberto De Francesco, Roberto Herlitzka, Chiara Iezzi e altri. Italia, Francia 2018 ★★★★★
Sarò anche prevenuto positivamente nei confronti di Paolo Sorrentino, che reputo un regista e prima ancora sceneggiatore geniale come ce ne sono pochi, ma è altrettanto vero che quanto più alte sono le aspettative, tanto più risultano fragorose le eventuali e forse inevitabili cadute: per me lo era stata, parzialmente, Youth/La giovinezza, ma con Loro siamo di nuovo ai massimi livelli mondiali. Ho atteso di vedere anche la seconda parte prima di esprimere un giudizio, ma questa non ha fatto altro che confermare l'ottima impressione che avevo avuto della prima: la decisione di fare uscire il film in due parti, che alcuni hanno ritenuto una furba operazione commerciale, a mio parere ha giovato alla visione perché, trattandosi di una pellicola, come tutte quelle del Nostro, caratterizzate dalla densità (di immagini, dettagli, suoni, parole, contesti, riferimenti) e al contempo da fasi di una sorta di dilatazione temporale, un minutaggio di circa 100' per ognuna è quello ideale per consentire il massimo di concentrazione senza sforzarsi e quindi gustando appieno ciascuna di esse. Ché poi la prima parte si concentra propriamente sui Loro cui si riferisce il titolo del film, ossia la corte di ruffiani, profittatori, puttane, sanguisughe, leccaculi, opportunisti che bramano entrare in contatto diretto e quindi nell'entourage di Lui, ossia un Silvio Berlusconi immalinconito dalla sconfitta elettorale per soli 25 mila voti del 2006 ma soprattutto dalla decisione della moglie Veronica Lario di prendere le distanze da lui fino a pretendere il divorzio: l'interprete che gli dà voce, movenze, sguardi attraverso una maschera che non ha bisogno di essere somigliante per essere ancor più verosimile e convincente un Toni Servillo, un artigiano della rappresentazione la cui bravura non è mai abbastanza sottolineata, senza alcun dubbio un Maestro, che appare per la prima volta dopo la prima ora di proiezione, e dopo che a Taranto Riccardo Scamarcio, un giovane e spregiudicato imprenditore con moglie piacente a altrettanto disponibile, ansioso di entrare nel grande giro di Lui, matura l'idea geniale di affittare una villa con vista sulle celebre Villa Certosa buen retiro di Berlusconi in Costa Smeralda divenuta all'occorrenza residenza di Stato, stipandola di ragazze vistose e organizzando feste sfrenate a spron battuto perché attirassero il vecchio satiro così come le api dal miele. Cosa che si verificherà nella seconda parte della pellicola quando, dopo i reiterati e spesso patetici tentativi del magnate di riconquistare da un lato la moglie, sempre più distante e ostile, dall'altra il potere, escogitando la strategia dell'acquisto dei sei senatori mancanti per far saltare la maggioranza irrisoria su cui si regge il secondo Governo Prodi, Sorrentino si concentra sull'uomo Berlusconi, sul suo modo di vedere le cose, entrando nella sua psicologia senza pregiudizi e direi perfino con affetto nei confronti di un uomo che è tutto pubblico e terribilmente solo: è questo, che ancor più della paura di invecchiare, che lo rende umano, e che dovrebbe fare riflettere le torme di suoi "odiatori" a prescindere, gli stessi che (l'asinistra specie in versione scalfarian-repubblicana, supponente e terrazzata, pettegola,  ipocrita e arrivista molto più di Silvio nostro) non sono ancora stati capaci di spiegare perché non lo abbiano contrastato prima ancora che "scendesse in campo", oltre a essergli complici fino a finire a governare con lui, così come Veronica Lario alla domanda del marito perché sia rimasta con lui per oltre 25 anni se pensava di lui quel che gli aveva rinfacciato. Chicche memorabili sono disseminate in tutto il film, dalle cantate di Berlusconi (inarrivabile un attore napoletano che dà voce a un milanese che canta in napoletano con tracce di accento brianzolo) e alle sue battute ai colloqui con Ennio Doris (interpretato anch'esso da Servillo: a dir poco un virtuosismo), Confalonieri, Mike Bongiorno, Sandro Bondi (quello che scriveva le poesie)   che tenta di fargli le scarpe dopo che ha perso le elezioni del 2006; grandiosa la telefonata che, spacciandosi per un immobiliarista, Berlusconi fa a una sconosciuta per testare se le proprie capacità di venditore (e di spacciatore di sogni) sono ancora intatte; poi ci sono le situazioni degli altri Loro, quelli che finiscono per bruciarsi per essersi troppo avvicinati a Lui senza riuscire minimamente a capirlo, e provando pure a fotterlo. Che non sia un film "politico" e antiberlusconiano non lo hanno capito solo i pretoriani a oltranza dell'uomo di Arcore: è un film biografico, non solo e non tanto sul personaggio ma sull'intero Paese, di cui Berlusconi è stato ed è tuttora comunque frutto e interprete come pochi altri. Da un punto di vista tecnico, come sempre, ineccepibile: dalla fotografia di Luca Bigazzi, magistrale, alla cura delle sceneggiatura come di ogni particolare dell'ambiente, alla colonna sonora, alla scelta degli interpreti, con note di merito per Ricci, Aspen, Scamarcio, Bentivoglio, Bonaiuto e l'ineffabile Cantarelli.

domenica 13 maggio 2018

Wajib - Invito al matrimonio

"Wajib - Invito al matrimonio" (Wajib) di Annemarie Jacir. Con Mohammend Bakri, Saleh Bakri, Maria Zreik, Tarik Kopti, Monera Shehadeh e altri. Palestina 2017 ★★★★
Un film prezioso, fatto con pochi mezzi (si tratta di una produzione indipendente palestinese) interpreti ottimi e più che mai credibili nella parte di padre e figlio essendolo anche nella vita reale e professionale, ispirato da uno spunto autobiografico dell'autrice, la regista e sceneggiatrice cristiano-palestinese Annemarie Jacir, ossia l'usanza da parte degli uomini di famiglia di quella comunità di recapitare personalmente gli inviti scritti ai matrimoni delle figlie e sorelle; una comunità, quella dei cristiani di Palestina, particolarmente nutrita a Nazareth, dove costituiscono un buon terzo della popolazione araba (a sua volta la maggioranza nella città più popolosa della Galilea, nel Nord di Israele): sono chiamati "gli invisibili", in una situazione del tutto anomala sotto l'occupazione ebraica. Il film racconta una giornata di Abu, un sessantenne insegnante, e suo figlio, Shadi, architetto, rientrato per l'occasione da Roma dove convive con la figlia di un ex pezzo grosso dell'OLP, trascorsa su e giù fra le strette stradine di Nazareth a consegnare di persona i wahib, gli inviti, a svariati parenti e amici della comunità, alle nozze della figlia e sorella. Si tratta di una tradizione, anzi: un dovere sociale da effettuare porta a porta, e così vediamo i due uomini, così diversi per età, concezioni, modi di vedere e di vivere, svelarsi man mano attraverso i loro colloqui in tutte le loro differenze, tra una visita dai toni formali e i viaggi sulla vecchia Volvo di Abu, che hanno portato e portano a veri per propri scontri ma anche, alla fine, a una reciproca comprensione. L'anziano professore non ha ancora digerito l'abbandono, anni prima, da parte della moglie, emigrata negli USA e che gli ha lasciato due figli da crescere, di cui la minore sta per lasciare a sua volta la casa di famiglia; per rimanere, ha dovuto convivere, sia con gli ebrei, sia con gli arabi musulmani e tenere un profilo abbastanza basso; il figlio Shadi è del tutto insofferente sia alle tradizioni sia all'andazzo, che considera come un cedimento, una resa da parte della comunità come da parte del padre, a cui rimprovera anche il comportamento durante le visite, perché lascia credere che il figlio tornerà a vivere a Nazareth, che è medico anziché architetto, che potrebbe sposare una ragazza locale. A sua volta, lui stesso rivela solo in un secondo tempo, prima al padre, poi alla sorella, che la rispettiva ex moglie e madre potrebbe decidere di non venire, come aveva assicurato, a questo matrimonio organizzato apposta per lei nel periodo di Natale, quando nessuno si sposa ma lei è libera di prendere ferie, perché la vita del marito "americano" è agli sgoccioli. E' un film semplice, fatto di situazioni di vita di tutti i giorni, delicato e attento pur non nascondendo alcun attrito; senza ipocrisie pur parlando (anche) di ipocrisie, spesso necessarie per sopravvivere in una situazione di stress costante come quello a cui è sottoposta tutta la società israeliana, ma ancor più la sua componente araba e, tra questa, quella ancor più anomala, ma esistente, degli "invisibili" di cui sopra; un film che non ha bisogno di gridare né di situazioni esasperate e drammatiche per raccontare situazioni vere e reali, sia per quanto riguarda i rapporti tra genitori e figli, parenti e conoscenti, sia il contesto del tutto particolare, eppure "normale", in cui avviene: la sensazione è proprio quel di essere lì, in quelle strade, in quelle case, in quei bar, con quella gente, in quel disordine così mediterraneo come il fatalismo e la capacità di adattamento, che non è per forza segno di debolezza. Un film che è una perla rara.

venerdì 11 maggio 2018

Si muore tutti demoscristiani

"Si muore tutti demoscristiani" di Il Terzo segreto di Satira. Con Marco Ripoldi, Massimilano Loizzi , Walter Leonardi, Renato Avallone, Valentina Ludovini, Paolo Rossi e altri. Italia 2017 ★★★+
Film divertente quello d'esordio per questo collettivo di autori satirici diventati famosi in rete per i loro video dissacranti sulle dinamiche del mondo della politica, che si può dire riuscito benché i tempi di un lungometraggio siano diversi da quello loro abituali, per certi versi autobiografico. Racconta infatti la vicenda di tre amici, Stefano, Fabrizio ed Enrico, titolari di una piccola casa di produzione che si destreggia tra servizi di matrimoni e video impegnati nel politico e nel sociale (esilarante la preparazione di un filmato per il 25 Aprile su incarico di sindacato e ANPI, che vuole rappresentare un "Quarto Stato" attualizzato, con tanto di coppie gay e perfino transgender con figli: grandioso il cameo di Paolo Rossi, oltre a quelli di Peter Gomez, Lilli Gruber e Andrea Scanzi), che per la prima volta hanno l'occasione di svoltare quando per 150 mila euro viene loro commissionato un servizio su una ONLUS che si occupa di accoglienza, dall'indicativo nome di Africando: peccato che il suo amministratore delegato sia caduto sotto inchiesta per aver utilizzato a proprio favore buona parte dei 35 euro che lo Stato versa all'ente per ogni migrante che "assiste", da qui i dubbi etici che assalgono i nostri tre eroi, e che vengono man mano "democristianamente" abbattuti da considerazioni personali: per uno, in perenne attesa di diventare docente universitario, la casa troppo piccola con un figlio in arrivo; per l'altro, il riscatto di fronte a un suocero mobiliere brianzolo che lo considera un nullafacente senza arte né parte, ossia un "artista"; per l'altro ancora, che sopravvive affittando la propria stanza nell'appartamento che condivide con l'amico d'infanzia imbecille attraverso Airbnb, una battaglia persa con la propria coscienza, soprattutto dopo un'analisi per una volta obiettiva del proprio passato politico. Il film parte in quarta e si inceppa un po' in vista del finale per colpa di una sceneggiatura incerta, ma coglie nel segno sia per la parodia, sia per la morale poco consolatoria che se ne trae. E' sostanzialmente un film di milanesoidi, sui milanesoidi e per milanesoidi, efficace soprattutto quando sbeffeggia, non so quanto volontariamente, il modo di parlare e i tic di quelli di sinistra, che gravitano attorno alla Zona Uno e alla Zona Tre (segnatamente Porta Venezia/Città Studi, le uniche dove il PD conquista la maggioranza relativa) della città coi loro rituali, ma in grado di raggiungere pure una platea lontana dal capoluogo lombardo, anche perché il suo linguaggio è stato divulgato negli ultimi tre decenni su scala nazionale da radio commerciali come Deejay, 101 e 105 nonché dalle reti Mediaset. Chiarisco che utilizzo il termine milanesoide in senso obiettivo prima ancora che negativo, intendendo la stragrande maggioranza dei nati a Milano dagli anni Settanta in poi, senza differenze di sesso, religione, etnia e colore e che hanno vissuto l'adolescenza nei Favolosi Anni Ottanta, quelli della Milano da bere: la generazione di Renzi e Salvini, per intenderci; nonché quelli che vi si sono stabiliti da post-adoloescenti a cose fatte, ossia quando la città oltre al cervello si era ormai bevuta anche la sua identità, da Tangentopoli in poi, per carpirne le mirabolanti nuove opportunità nello sfavillante mondo del terziario, della pubblicità e della moda con annessi e connessi: la Milano dei creativi e della finanza. Sopravvive, nel gruppo del Terzo segreto di Satira, qualcosa della vena surreale della migliore comicità milanese, che va da Umberto Simonetta a Beppe Viola a Cochi e Renato ed Enzo Jannacci  transitando dal Derby ma anche da Gaber e Fo, ma in forma, per l'appunto, milanesoide. Manca la nebbia in riva ai Navigli, insomma: per il resto, avanti così! (il titolo, comunque, è quanto mai veritiero su scala nazionale).

mercoledì 9 maggio 2018

Dopo la guerra

"Dopo la guerra" di Annarita Zambrano. Con Giuseppe Battiston, Barbora Bobulova, Charlotte Cétaire, Fabrizio Ferracane, Elisabetta Piccolomini e altri. Francia, Italia, Belgio 2017 ★★½
Film d'esordio di Annarita Zambrano, e presentato nella sezione Un certain regard a Cannes l'anno scorso, come tale può andare, e "passa l'esame" per come è girato e per le interpretazioni, mentre suscita perplessità sia per le sceneggiatura, zoppicante e farcita di frasi fatte, specie quando si parla di politica, sia per l'improbabile sequenza di colpi di scena che danno un tocco adrenalinico a una pellicola che ha nel lato intimistico il suo punto di forza: il risultato è che si muove un po' troppo nell'ambito dello sceneggiato televisivo. Siamo nel 2002, quando a Bologna viene ucciso un giuslavorista che insegna all'università e l'attentato viene rivendicato dalle Forze Armate Rivoluzionarie, un gruppo che porta le stesso nome di quello attivo negli anni Settanta e fondato da Marco Lamberti, rifugiatosi da vent'anni in Francia in base alla Dottrina Mitterrand rifacendosi una vita (il riferimento è a Marco Biagi e a un buon numero di ex terroristi che hanno riparato a Parigi e dintorni), ma i tempi sono cambiati, l'uomo (Battiston in un ruolo sofferto), che è diventato un apprezzato intellettuale nel Paese che lo ospita, viene tirato in ballo per il nuovo omicidio e la Francia ora è propensa a concedere l'estradizione: così Marco, decide che è tempo di cambiare aria, procurarsi documenti falsi e filarsela in Nicaragua, trascinando nella sua fuga anche Viola, l'unico legame che gli è rimasto dopo la morte della moglie, dato che dalla sua fuga dall'Italia non ha più avuto contatti con la famiglia d'origine. La quale a sua volta viene nuovamente coinvolta dall'omicidio del docente perché a Bologna non ci si è dimenticati: la madre, ammutolita da il dolore per la perdita di due figli: oltre a Marco, autoesiliato, il fratello, anche lui terrorista, ucciso in uno scontro a fuoco; la figlia (l'immancabile Barbora Bobulova: stavolta le fanno interpretare un'insegnate di italiano al liceo, va bene che ha un accento neutro... In compenso come nevrotica perennemente depressa è perfettamente in parte); infine il marito di lei, un pubblico ministero che si occupa meritoriamente di cause sull'amianto e candidato a diventare procuratore generale. Film intimista, come accennato, si concentra sulle "colpe che ricadono su chi resta": da un lato Viola, che con Marco parla esclusivamente in francese, e pressoché nulla sa sia del passato sia delle intenzioni del padre, venendone vagamente a conoscenza grazie a una giornalista che lo va a intervistare, la quale viene coinvolta nella fuga decisa dal latitante e strappata alla scuola, al suo ambiente, alle sue amicizie; dall'altro l'anziana madre di Marco, oggetto di un atto intimidatorio nella sua bella casa sui colli bolognesi; la sorella, costretta a prendersi un'aspettativa dal preside della scuola dove insegna (e chiamata a rapporto dalla bidella mentre sta svolgendo lezione: cosa improbabile perfino in Italia) per la reazione dei genitori dei suoi alunni dopo l'omicidio del docente; infine il cognato, che rinuncia alla candidatura a procuratore generale. Lato positivo del film, la sensazione di disagio e sospensione che induce, rendendo partecipi di una situazione che, per come la si rigiri, non è stata affrontata e quindi risolta e ha mietuto vittime in ogni direzione, anche tra chi, essendo legato per parentela a ex combattenti irrigiditi nel loro dogmatismo come Marco, viene fatto carico, per così dire, di una sorta di responsabilità obiettiva. E' possibile lasciarsi alle spalle il passato? Voltare pagina? Se sì, come? Domande inevase, e non solo per cattiva volontà, e che tornano attuali proprio in questi giorni in cui cade il quarantesimo dal ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in Via Fani. Non era pretesa del film darvi una risposta, ma colpisce nel segno quando sull'argomento induce alla riflessione. 

lunedì 7 maggio 2018

Sono solo marionette


Alla decima settimana dall'ultima tornata elettorale siamo all'"ultimo giro di consultazioni", alla disperata ricerca del premier terzo, all'immancabile totonomi, e il Capo dello Stato non ha fatto la cosa più ovvia e sensata: conferire l'incarico esplorativo definitivo, con obbligo di risultato, all'unico leader politico che è in grado di trovare e garantire i voti necessari nei due rami del Parlamento: Silvio Berlusconi. Perché è lui il nocciolo della questione, la dirimente che impedisce, così dicono, la formazione di un governo M5S-Lega. Mi si obietterà che, in base alla legge Severino, il noto pregiudicato è incandidabile, ineleggibile e interdetto a ruoli di governo, ma nessuno vieta al presidente della Repubblica di affidargli il compito di sondare il terreno e suggerire il nome dell'incaricato a formare il governo: del resto l'ha accolto amichevolmente e sorridente assieme ai colleghi Salvini e Meloni, come capo della coalizione che, lo dicono i numeri e lo certifica l'oscena legge con cui si è votato, ha vinto le elezioni del 4 marzo, fornendogli pure il palcoscenico per una delle sue sceneggiate più penose davanti alle telecamere nei saloni del Quirinale. In un Paese un minimo più serio un personaggio simile non avrebbe potuto candidarsi già dal 1994, eppure condiziona la vita politica italiana da allora, senza mollare la presa nemmeno all'alba degli 82 anni e ce lo terremo vita natural durante per una forma di usucapione della scena. Vero che un presidente meno accomodante non lo avrebbe accolto a braccia aperte per ascoltarne i suggerimenti, ma Mattarella è quello che è, uno che non è stato nemmeno in grado di difendere la legge elettorale che portava il suo nome: l'ultima, per quanto cervellotica, dotata di tutti i crismi di costituzionalità con cui abbiamo votato, preferendo firmare, senza fare una piega, l'inverecondo Rosatellum. E poi, l'ha ribadito lo stesso Mattarella, l'importante è che il futuro capo del governo porti avanti programmi coerenti con le emergenze nazionali e, soprattutto, con gli impegni europei del Paese. E da questo punto di vista Berlusconi è una garanzia contro il populismo: l'attestato lo ha ottenuto dai sopracciò della UE prima e dopo il voto e perfino di persona da Angela Merkel, quella che a suo tempo aveva definito culona inchiavabile. Che problema c'è? Un governo guidato da un premier indicato da Berlusconi, tecnico o politico, i voti li avrebbe: la Lega è antieuropea solo per finta e comunque l'uomo di Arcore tiene Salvini per i coglioni;  i pecorenzi del PD assicurerebbero nel caso un appoggio anche esterno, e non è escluso che lo facciano perfino i pentastellati, dal cui programma è scomparsa ogni posizione seppur velatamente anti-UE, o almeno un numero sufficiente di loro per garantire un'ampia maggioranza, magari con la promessa di riformare la legge elettorale: tanto poi si sa, così come le balle, se hanno le gambe, camminano, così anche i governi, finché hanno i voti in Parlamento, stanno su, magari per tutta la legislatura, come di fatto è accaduto con quelli espressi in quella precedente, passati solo nominalmente da Letta a Renzi a Gentiloni, costantemente teleguidati da Bruxelles e Francoforte, per non parlare di quello Monti, di diretta emanazione UE/Goldman Sachs. E quindi di cosa stiamo parlando? Non è evidente che la pantomima messa in scena da questa banda di pagliacci, anzi: di burattini, è stata l'ennesima arma di distrazione di massa oltre che una solenne presa per il culo? 

sabato 5 maggio 2018

L'isola dei cani

"L'isola dei cani" (Isle Of Dogs) di Wes Anderson. USA 2018 ★★★★½
Nella versione originale, il cast completo dei doppiatori comprende niente meno che: Bryan Cranston, Scarlett Johansson, Tilda Swinton, Greta Gerwig, Bill Murray, Frances McDormand, Harvey Keitel, Edward Norin, Jeff Goldblum, Bob Balaban, F. Murray Abraham, Kunichi Nomura, Akira Ito, Yoko Ono, Liev Scrreiber.  Quelli italiani potete trovarli su questa pagina di Wikipedia ma, trattandosi di semplici doppiatori, e non di attori di chiara fama, la distribuzione si è ben guardata dal renderne noti i nomi. Questa è una cosa che fa girare i coglioni assai: perché da un lato non si finisce di decantare la qualità della scuola di doppiaggio nostrana; dall'altra si dimentica che il motivo è che l'Italia è un Paese in cui avere l'occasione di vedere un film in lingua originale sottotitolata è l'eccezione anziché la regola, una bizzarria per cinéphiles, mentre il pubblico normale deve sorbirsi il romanesco in bocca ai newyorkesi o financo ai vietnamiti, compresi i titoli delle pellicole d'importazione film tradotti sistematicamente a cazzo. Ma torniamo a Wes Anderson che non si merita questa digressione perché si conferma un artista a tutto tondo: autore di vaglia, regista attento e maniacale nei particolari ma al contempo estroso, poetico e di una lievità che nulla toglie alla profondità dei temi che affronta, sempre con ironia e leggerezza. Per esprimersi passa dal film convenzionale a quello di semi-animazione, come Grand Budapest Hotel, a quello surreale dei Tenenbaum a quello on the road de Il treno per il Darjeeling. Qui siamo al cartone animato integrale, girato con la tecnica "passo uno", detta stop-motion, che racconta la storia, ambientata in un Giappone del 2037 ancora più distopico di quel che è già ai nostri tempi, suddivisa in didascalici capitoli, di un ragazzino dodicenne, Atari Kobayashi, orfano e adottato dallo zio, sindaco della metropoli di Megasaki, che va alla ricerca del suo cane da guarda Spots, deportato per volere dello zio assieme a tutta la popolazione canina della megalopoli su un'isola-discarica dopo che questa è stata infettata da un virus influenzale che si vuol far credere possa contagiare anche gli umani (gattofili). Lì riceverà il supporto da parte della disomogenea intelligencija canina al confino, mentre nella megalopoli governata dal suo parente e tutore opererà un gruppo di studenti e hacker ribelli capitanati da una ragazza straniera in Giappone per una specie di Erasmus, assetata di giustizia, non solo canina, e che ha una cotta per lui. La storia è ovviamente un puro pretesto, ma la grande bravura di Anderson è nel fatto di riuscire a coinvolgere, come sempre, ogni fascia di pubblico al livello in cui questa si rende disponibile a farsi rendere partecipe: chiunque, da un bambino di 5 anni, a un novantenne, può trovare, senza alcun bisogno di spiegazioni, e avvalendosi delle immagini e perfino dei dialoghi appositamente lasciati in giapponese ma comprensibilissimi per la loro sostanza proprio grazie alle immagini, un senso e una ragione nella vicenda. Alla fine si ha sensazione soddisfatta di aver visto qualcosa di bello, coinvolgente, che avesse un senso. Attraverso un cartone animato a lieto fine. Non è poco: è arte, ed è poesia.

giovedì 3 maggio 2018

Tu mi nascondi qualcosa

"Tu mi nascondi qualcosa" di Giuseppe Lo Console. Con Giuseppe Battiston, Stella Egitto, Sara Felberbaum, Rocio Muñoz Morales, Rocco Papaleo, Olga Rossi, Alessandro Tiberi, Eva Robbins. Italia 2018 ★★-
Dopo due "cagate" consecutive, una se possibile più indisponente dell'altra, anche una commediola sentimentale come questa si rivela una boccata d'aria fresca, e fa trascorrere un'ora e mezzo serenamente, senza far venire il malumore e riuscendo perfino a strappare qualche sorriso: qualche idea originale, alcune battute felici, ma nulla più. Lo stile è televisivo, e come miniserie di prima serata il materiale sarebbe più che sufficiente, ma sul grande schermo si pretenderebbe di più, così come qualcosa oltre il minimo sindacale da parte degli interpreti: Battiston (sprecato per eterni ruoli da pagliaccio imbranato malinconico) e Papaleo lo forniscono, Olga Rossi perfino qualcosa di più, Sara Felberbaum se la cava perché è spigliata e simpatica, oltre che gradevole alla vista, sul resto del cast è meglio stendere un pietoso velo. La storia è circolare e vede coinvolti a turno tutti i personaggi, o meglio le coppie, talvolta variabili, dei personaggi, dove ognuno nasconde qualcosa all'altro, come dice il titolo, oppure capisce una cosa per l'altra: così abbiamo un'investigatrice privata con un padre-socio stordito che per sbaglio rovina la vita a un clown rivelandogli la tresca della convivente con un supponente psicoterapeuta/consulente di coppia (o qualcosa di simile); un taxista con velleità di scrittore che nulla ha da dire se la tenera fidanzata di mestiere fa la pornostar ma si ingelosisce per qualsiasi contatto fuori dal posto di lavoro, anche se con le migliori intenzioni; infine un imprenditore immobiliare svanito nel nulla e ricomparso in Tunisia in seno una seconda famiglia, dopo essere scampato a un naufragio nel Canale di Sicilia ma non a un (provvidenziale) vuoto di memoria: lo riporteranno, con la moglie il figlio maghrebini, nella natìa Cuneo (inconsueta location del film) perché recuperi i ricordi del passato a contatto con la famiglia italiana. Non possono mancare, al giorno d'oggi, nemmeno il figlio gay e la canna in compagnia, e la "sorprendente" (si fa per dire) comprensione del padre bigamo (benché meridionale) in occasione del coming out dell'erede e l'immancabile e consolatorio lieto fine. Davvero un po' poco per giustificare il prezzo del biglietto e la fatica di alzarsi dalla poltrona di casa, ma sempre meglio delle due solenni vaccate viste in precedenza.

mercoledì 2 maggio 2018

Elogio e definizione della "fjaka"


Giusto ieri, ragionando con una mia cara amica sullo stato di gnàgnera generalizzata che mi affligge da qualche tempo, soprattutto quando lascio filtrare le notizie che arrivano dal mondo esterno, in particolare quelle sconfortanti di natura politica, romana e no, nazionale o internazionale che sia, negavo che si trattasse di noia, perché per quanto tendenzialmente irrequieto e incline all'ipercinetismo, se niente e nessuno viene a rompermi i coglioni ho una capacità istintiva di adattarmi a situazioni in cui non ci sia assolutamente niente da fare e approfittarne per schiacciare una pennica ristoratrice, o meglio ancora raggiungere quello stato di dormiveglia e sogno attivo caratterizzato da pensieri e immagini teleguidate che lo distingue da ciò che si definisce meditazione. Anzi: ciò che più mi manca è quella disposizione d'animo che mi prende non appena sbarco su una qualche isola o anche in alcuni tratti di costa della Dalmazia, e che mi spinge a cercare uno spazio a bordo mare in cui raggiungere, senza alcuno sforzo, semplicemente lasciandomi andare, quello stato che gli antichi filosofi greci chiamavano atarassia, che è leggermente diversa da quello zen delle filosofie orientali, perché vi si aggiunge una sensazione di pienezza e di voluttà di stampo epicureo: i dalmati usano l'espressione evocativa di  fjaka, con un termine che ha chiare ascendenze latine, e una definizione esemplare l'ho trovata sul sito dell'Ente del Turismo della Croazia, scritta peraltro in ottimo italiano e ve la propongo qui di seguito. A illustrarla, in alto, l'immagine dell'animale che forse più di ogni altro ne è l'interprete esemplare. 



Alla fjaka la gente di Dalmazia ha dedicato e continua a dedicare i propri versi. Talvolta non si tratta di semplici versi, ma di vere e proprie odi. Anche chi sa riconoscere la fjaka, oppure è caduto egli stesso nella rete del suo ritmo ipnotico, non è in grado di spiegare esattamente di che cosa si tratti. Ciascuno ha una propria definizione di fjaka che, a ben vedere, non definisce né spiega alcunché. Eppure, tutti sono d’accordo su una cosa: la fjaka è uno stato della mente. C’è anche chi la equipara alla pigrizia, ma la fjaka non è né pigrizia, né spossatezza. La fjaka è fondamentalmente riposo. Quando il sole, il mare e l’afa pomeridiana s’incontrano sommando i loro effetti, ecco che si creano le condizioni ideali per una buona fjaka.


Ma che cos’è la fjaka e come riconoscerla?
La fjaka come sinonimo di pigrizia 
Come abbiamo già detto, tanti equiparano la fjaka alla pigrizia. Di primo (e secondo) acchito, capirete che la linea di confine tra i due concetti è molto labile. Al terzo o quarto tentativo, vi renderete conto che non si tratta della stessa cosa. Chi meglio conosce il fenomeno della fjaka, vi dirà che si tratta di uno stato elevato della mente e del corpo cui anela l’umanità tutta. Chi, invece, è pigro, è pigro e basta!

È possibile impararla, la fjaka
Difficile, perché la fjaka è una cosa individuale. L’intensità di ogni singola fjaka non è sempre la stessa. La fjaka è uno stato a cui si arriva empiricamente, è un’esperienza personale, magari con un piccolo aiuto di chi, dall’alto della sua esperienza, può impartire in ogni momento qualche utile consiglio. I nemici giurati della fjaka diranno che la fjaka non può essere appresa perché non c’è nulla da insegnare. Noi diremmo, invece, che la fjaka non si può imparare, ma si può invece “carpire”.
C’è chi dice che fjaka e stanchezza siano la stessa cosa
Noi propendiamo a equipararla alla lentezza, piuttosto che alla stanchezza. Quando ti prende la fjaka, sei costretto a rallentare. Se fossi al volante della tua auto, è come se davanti a te si parasse una strada lunga e rettilinea la cui fine si perde nella foschia, e tu scali le marce, metti in folle e aspetti che l’auto, esaurita la spinta iniziale, si fermi. Insomma, ti adegui al detto locale che corrisponde, pressappoco, all’italiano “Il trotto dell’asino dura poco”. Insomma, una volta che ti prende la fjaka, impari ad apprezzare il ritmo lento della vita.
Come spiegare la fjaka dal punto di vista scientifico?
In un certo senso, la fjaka è un espediente inventato dalla gente di Dalmazia per sopravvivere. Avete certamente notato come la fjaka sia assente nei paesi dal clima più freddo. La fjaka, e fenomeni simili, sono frequenti in tutto il Mediterraneo, dove le temperature estive raggiungono i 40 °C. In Spagna diventa siesta, in Italia pisolino, pennichella …

E dunque, se desiderate riposarvi, venite in Dalmazia e fatevi prendere dalla fjaka, perché soltanto quando vi avrà catturati, capirete che cosa vuol dire riposarsi per davvero. “Che fretta c’è?”, dirà chi sa cosa vuol dire farsi prendere dalla fjaka.