lunedì 30 aprile 2018

L'amore secondo Isabelle

"L'amore secondo Isabelle" (Un beau soleil intérieur) di Claire Denis. Con Juliette Binoche, Xavier Beauvois, Nicolas Duvachelle, Philippe Katerine, Josiane Balasko, Alex Descas, Laurent Grévil, Sandrine Dumas, Gérard Depardieu. Francia 2017 
Ero stato facile profeta, nel finale dell'ultimo post, e sono stato giustamente punito per non aver voluto imparare dall'esperienza, meritandomi di aver assistito a un film stupido, verboso, inconcludente e irritante come pochi altri per cui abbia pagato il biglietto di ingresso in sala: il cinema francese al suo peggio, tra onanismo intellettuale e sociologismo da bouduoir, lo studio dei rapporti tra donna e uomo visti dalla prospettiva del buco della serratura di uno studio di estetista, però di "gran classe", o meglio del milieu artistico della capitale più spocchiosa e autoreferenziale che esista sul pianeta: Parigi. L'ambiente è quello delle sue gallerie d'arte à la page, e il pippone sulle fregole di una cinquantenne "artista", si presume pittrice astratta, separata dal marito, l'Isabelle del titolo italiano, interpretata da Juliette Binoche, un'attrice altrimenti di buona caratura e per questo ancora più colpevole per essersi prestata a questa atroce farsa, all'eterna ricerca di une relazione che la soddisfi ma che in realtà non si capisce cosa cazzo voglia, soprattutto perché si sia separata dal marito, con cui però continua ad avere rapporti sessuali mentre passa da una storia all'altra, e con cui pure ha una figlia di dieci anni in comune, affidata ad entrambi ma di cui lei non si occupa mai: la ragazzina la vediamo soltanto una volta, per strada e in macchina con padre, mentre nel letto di Isabelle transitano tre uomini uno peggio dell'altro. Fossero almeno belli e prestanti: nemmeno quello. Il primo è un banchiere di una volgarità infinita con cui ha imbastito una relazione da tempo e che la tratta come una puttana; il secondo è un attore solipsista che in comune con lei ha il non avere le idee chiare di dove andare a sbattere e la considera una deficiente; il terzo è un rozzone cuccato mentre era imbriaga a una festa da ballo durante una trasferta in mezzo ai villici in un paesotto di provincia col suo giro di galleristi di riferimento, una banda di puzzoni petulanti pieni di boria che si danno arie di superiorità e cianciano in continuazione del nulla; in mezzo, sesso che dovrebbe essere rassicurante con il marito ex ma non del tutto, perché anche quello non le va bene. Per non farsi mancare nulla, e nemmeno a chi guarda finisce col mettersi nelle mani di un veggente, a quanto pare in crisi sentimentale pure lui, il che consente a un malinconico Gérard Depardieu in versione Mago Othelma della Rive Gauche di  esibirsi in un avvilente monolologo di banalità. Fossi una donna, sarei imbestialito per un film che dipinge in questa maniera la crisi di mezza età di una donna che sembra dover comunque dipendere da un maschio per dare un senso alla sua vita, e che sembra scritto e diretto da un misogino impenitente, invece la responsabile di questa pellicola sconfortante, recitata peraltro in maniera dozzinale dagli interpreti, è una donna, Claire Denis; ma il vero responsabile è chi ha prodotto questa vaccata invereconda. Se decidete di andare a vederlo, lo fate a vostro rischio e pericolo; io vi avevo avvertito. 

sabato 28 aprile 2018

Doppio amore

"Doppio amore" (L'amant double) di François Ozon. Con Marine Vacth, Jéremy Renier, Jacqueline Bisset, Myriam Boyer, Dominique Reymond e altri. Francia 2017 
Il sottotitolo di Doppio Amore potrebbe essere Il buco dell'Ozon, perché stavolta il regista parigino, uno dei miei preferiti in assoluto, da sempre indagatore del lato nascosto dell'animo umano, e in questo caso più che mai del doppio che alberga in noi, dell'ambiguità e di come questa agisce sulla sessualità e sui rapporti tra le persone, ha toppato di brutto, a mio parere. Ozon ha sempre avuto il gusto per il paradosso e per le situazioni spinte al limite e anche oltre, ma sempre nell'ambito del plausibile, per quanto fuori dal normale ed eccessivo, quindi con una base reale; qui siamo oltre, in un misto di noir (apprezzabile, e girato come sempre con maestria: le sorprese non mancano, le citazioni da Hitchcock a Polanski a Cronenberg, neppure), fantasy e perfino horror: abbiamo perfino un Alien che esce dal ventre della protagonista, della quale (o della sua controfigura, non ci interessa indagare) abbiamo perfino un paio di visioni ginecologiche, modalità orgasmo compreso. Insomma, l'impressione è che si sia fatto prendere la mano e che l'abbia colpito una botta di maniacalità decisamente esagerata, già entrata in una dimensione patologica. La protagonista è Chloé, un'ex modella venticinquenne ai confini dell'anoressia, viene da pensare, dato che somatizza i suoi problemi attraverso continui dolori all'addome, che ha messo via qualche risparmio e si adatta a fare la guardiana in un museo passando il resto del tempo tra due psichiatri gemelli, Paul e Louis, l'uno buono, con cui mette su casuccia e fa il nido, l'altro il cattivo, con cui fa sesso selvaggio e si lascia maltrattare. Alla fine va in confusione, non sa più chi sia quale, delira, scopre di avere avuto una sorella gemella omozigote pure lei e di averla cannibalizzata, forse, chissà. Ambienti levigati, stronzaggine acuta dei personaggi e del loro ambiente di cazzoni, a dimensione loro, Parigi centro, fighetteria sia de destra sia de sinistra sia de centro, tutto un mondo finto che certamente esiste anche, ma nulla ha a che fare con la realtà. Peccato, ma sono sicuro che Ozon si rifarà perché la stoffa c'è. Comunque sarebbe stato un caso vedere due film francesi di fila senza incazzarsi almeno una volta. Figurarsi tre: perché col prossimo, già in programma, potrebbe andare perfino peggio...

giovedì 26 aprile 2018

La casa sul mare

"La casa sul mare" (La villa) di Robert Guédiguain. Con Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meyland, Anaïs Demoustier, Jacques Boudet, Robinson Stévenin, Yann Trégouët e altri. Francia 2017 ★★★★
Cinema politico e antropologico al tempo stesso, quello del marsigliese Guédiguain, che de sempre rivolge la sua attenzione a ciò che è rimasto, col cambiare dei tempi e la sua metamorfosi, della classe operaia e della sua radicata coscienza, e dei riflessi che questa aveva nei comportamenti tanto collettivi quanto interfamigliari e individuali di chi ne faceva o anche ne fa tuttora parte, in seguito alla metamorfosi avvenuta non soltanto nel mondo del lavoro in senso stretto col trionfo della globalizzazione e dell'economia finanziaria che le sta dietro. Lo fa con un film che ha tempi, modi, personaggi e perfino luoghi della tragedia greca, considerata l'ambientazione prettamente mediterranea nella piccola baia di Méjean, a forma di anfiteatro, da cui si ha una vista spettacolare sulla città di Marsiglia, che le sta di fronte. Un minuscolo borgo di pescatori dove negli anni Sessanta e Settanta nel tempo libero un gruppo di operai ha costruito nel tempo libero delle ville in cui trascorrerre serenamente una vita comunitaria: una specie di enclave comunista. Tra questi, uno degli ultimi rimasti, il vecchio proprietario dell'unica trattoria del luogo, che per menù ha solo pasta e ciò che si produce in loco, ossia lo scarso pescato, a prezzi rigorosamente popolari, a cui viene un ictus che lo lascia paralizzato e in stato quasi vegetativo. Per assisterlo e sistemare questioni ereditarie si riuniscono i tre figli: Armand, l'unico rimasto che si occupa del ristorante; Joseph, un ex operaio diventato dirigente e poi conferenziere, depresso e in piena crisi di mezza età, con una compagna molto più giovane, e Angèle, una attrice teatrale diventata famosa e con una ferita inguaribile che l'ha allontanata dal padre: la morte, accidentale, della figlia che gli aveva affidato. La vicenda si svolge nell'arco di poche giornate di un inverno soleggiato, che vede i tre fratelli decidere il da farsi in un luogo ormai senza vita, dove gli ultimi residenti se ne stanno andando perché gli affitti sono diventati insostenibili e i proprietari, o meglio i loro eredi, preferiscono dare in locazione gli appartamenti a settimane o, al più, a stagione: il borgo della solidarietà operaia è ormai diventato soltanto un luogo pittoresco tra le calanques da sfruttare turisticamente. Anche il giovane medico che ha in cura il vecchio e i cui genitori vivono ancora lì sta per emigrare a Londra, rimane soltanto un pescatore dall'aspetto infantile e sognante, da sempre innamorato di Angèle. Ciò che accade nei pochi giorni di convivenza li porta tutti ad affrontare i propri fantasmi, sia presenti sia passati, e la scomparsa di due anziani vicini, nonché il ritrovamento casuale di tre giovanissimi ragazzini siriani sfuggiti a un naufragio come anche alle retate dei militari per rimpatriarne i superstiti stravolge i loro programmi cambiando loro completamente prospettiva, e non aggiungo altro perché il mio consiglio è quello di andare a vederlo e scoprirlo da soli. Cinema pulito, rigoroso, coerente però mai pedante e capace di dire le cose dure con leggerezza, Guédiguain guida senza alcuna difficoltà un gruppo di attori a cui si affida da sempre, tra cui sua moglie Ariane Ascaride. Si esce dalla con qualcosa in più, sia da un punto di vista emozionale sia da quello della comprensione.

mercoledì 25 aprile 2018

Risi, bisi e... basi!


25 aprile e tripla festa: della Liberazione (1945) in Italia, Día da Liberdade (1974) in Portogallo ma, prima ancora, per quel che mi concerne, il giorno del mio onomastico: San Marco.
Venezia possiede molte ricette tradizionali: per festeggiare degnamente il patrono della città, l'Evangelista Marco, assolutamente non possono mancare Risi e Bisi (riso e piselli).
Si tratta di una densa zuppa che si preparava soprattutto in aprile, in quanto è un piatto tipicamente primaverile. Le sue origini vanno forse fatte risalire ai primi secoli della storia di Venezia, quando la città era sotto il dominio di Costantinopoli perché quelle popolazioni da tempo avevano l'uso di mescolare il riso con altri ingredienti.
Qui la ricetta: io eccezionalmente ho preparato una versione più leggera, senza lardo, trito di prezzemolo e brodo di baccelli.
Un piatto di Risi e Bisi veniva offerto al Doge nella sala dei banchetti di Palazzo Ducale appunto in occasione dei festeggiamenti in onore di San Marco, il 25 aprile.

Il Doge della Serenissima ne faceva un uso ben augurale per la festa della Repubblica di Venezia, nel giorno di San Marco. Abbinando il riso, cereale simbolo della fertilità (come accade con le manciate gettate sulle spose) con i piselli, frutti dell'eccellenza primaverile coltivati negli orti lagunari, si confezionava il piatto che veniva offerto a tutti i membri del governo veneziano.

lunedì 23 aprile 2018

Il prigioniero coreano

"Il prigioniero coreano" (Geumul) di Kim Ki-Duk. Con Ryoo Seung-Bum, Lee Won-Geun, Choi Gwi-Hwa, Jo Jae-Ryong, Wong-geun Lee e altri. Corea del Sud 2016 ★★★½
Quanto mi aveva profondamente irritato Pietà, l'ultimo film di Kim-Ki-Duk con cui aveva vinto il Leone d'Oro alla 69ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia del 2012, tanto mi è piaciuto questo suo film apertamente politico, questa volta invece pressoché ignorato dalla giuria dello stesso festival cinematografico, con cui torna alle tematiche dell'esordio: dipingendo le condizioni della gente comune, degli sfruttati e degli emarginati da parte dei due regimi contrapposti ma altrettanto paranoici e malati di ideologie che si suddividono la Penisola Coreana, separati ufficialmente dal 1953, ma di fatto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, dal 38° Parallelo. E' lungo un fiume che scorre alla sua altezza, e dove passa il confine tra le due Coree, che avviene la vicenda emblematica di Nam-Chul-woo, un povero pescatore la cui barca è l'unico mezzo con cui può procurare da vivere a sé, alla amata moglie e alla figlioletta. Succede che, uscendo una mattina a pescare, le reti si impiglino nel motore mandandolo in panne e che, del tutto contro la sua volontà, la corrente lo sospinga oltre il confine del Sud dove viene immediatamente arrestato perché entrato in una delle zone di sicurezza e sottoposto a interrogatori ossessivi e anche violenti perché sospettato di essere una spia: soltanto l'agente che lo assiste, la cui famiglia peraltro è originaria del Nord e che non vede chi proviene da lì come l'emanazione del demonio (è, anzi, il cuore culturale e delle tradizioni del Paese) gli crede e lo tratta con gentilezza. Il pescatore finisce dunque in mano da una parte a un poliziotto vendicativo e ossessivo, che però non ottiene risultati, dall'altro a funzionari che tentano di sedurlo facendolo passeggiare per Seul, perché rimanga abbagliato dalle mirabilie offerte del sistema capitalistico: Nam-Chul-woo dapprima non apre nemmeno gli occhi, conscio che qualsiasi cosa dovesse vedere gli verrebbe rinfacciato una volta tornato in patria, dove l'avrebbero accusato di essersi fatto tentare; quando è costretto ad aprirli, quel che vede (una prostituta pestata dai suoi due papponi) non è certo edificante. Quando alla fine lo lasciano tornare nella patria che non ha mai rinnegato, viene sottoposto a un trattamento speculare da parte dei suoi connazionali, che pure del rientro del "figlio prodigo" hanno fatto un caso mediatico. Cade insomma dalla padella alla brace, sommerso dai sospetti benché accolto ufficialmente da eroe, e maltrattato con la stessa brutalità e mancanza di umanità dagli aguzzini del Sud, e come se non bastasse le autorità gli tolgono pure la licenza di pesca, e con ciò il mezzo di sostentamento suo e della sua famiglia. Perché, nei giochi di potere tra fronti contrapposti ideologicamente ma analoghi nella sostanza, così come nelle guerre, chi ci va di mezzo è chi il potere non ce l'ha e lo subisce per logiche che gli sono del tutto estranee e su cui non può influire. Che sarà anche un messaggio banale, ma sempre utile e meritorio da ribadire, tanto meglio attraverso un film che racconta con pochi, essenziali tratti una realtà di cui sappiamo poco, per quanto la Corea ultimamente faccia spesso notizia. Insomma con questa pellicola ai miei occhi Mim Ki-Duk si è ampiamente riabilitato. 

sabato 21 aprile 2018

The Silent Man

"The Silent Man" (Mark Felt: The Man Who Broght Down The White House) di Peter Landesman. Con Liam Neeson, Diane Lane, Kate Welsh, Maika Monroe, Marton Csokas, Ike Barinholtz a altri. USA 2017 ★★★½
Scritto e diretto da un giornalista investigativo passato al cinema e basato sull'autobiografia di Mark Felt, vicedirettore del FBI alla morte di Edgar Hoover nel 1972, di cui fece immediatamente distruggere i dossier personali che l'onnipotente e paranoico capo supremo faceva fare su chiunque fosse suscettibile di essere un potenziale sospetto, The Silent Man, oltre che ben girato, anche se in forma più documentaristica che di film d'azione, è particolarmente interessante perché racconta la storia del Watergate vista dalla parte di Gola Profonda, ché questi era Felt, come rivelò nel 2005 a Vanity Fair, pochi anni prima di morire, ossia colui che passò le notizie segrete sul coinvolgimento di Nixon nello scandalo e poi alle sue dimissioni a Carl Bernstein e Bob Woodward, i due eroi di Tutti gli uomini del presidente, i giornalisti del Washington Post che lo fecero scoppiare: da un punto di vista cronologico, il film inizia quando finisce il recente e ottimo The Post. Meno appassionante e movimentato, necessariamente più parlato, ricostruisce con molta credibilità l'atmosfera che regnava all'interno del Bureau, della cui autonomia rispetto al potere politico Felt era un paladino, oltre a essere un sincero democratico, accerchiato dalla ragnatela tessuta da Nixon e dai suoi accoliti per impedire che indagasse sui malaffari della Casa Bianca, che aveva creato un vero e proprio sistema di camere stagne per impedire che gli intrallazzi in cui erano implicati Tricky Dicky e soci fossero collegabili tar loro. Pur essendo il delfino e il successore designato di Hoover, Nixon nominò capo del FBI il procuratore generale Pat Grey, altro "uomo del presidente", ma nessuno osò estromettere Mark Felt perché era colui che ne conosceva tutti i segreti e i meccanismi di funzionamento. La pellicola ne illustra i modi, gli aspetti privati (dove era molto meno flemmatico che sul lavoro), gli scrupoli, i dubbi laceranti e al contempo il rigore morale, senza però diventare mai agiografica: claustrofobica e per la maggior parte girata in interni, nelle stanze dell'agenzia, salvo qualche scorcio sugli altri palazzi del potere disseminati a Washington e nelle caffetterie delle stazioni di servizio da dove Gola Profonda telefonava ai suoi referenti nella stampa o nei parcheggi seminterrati dove li incontrava; la ricostruzione dell'ambientazione è molto accurata così come quella dei rapporti di potere tra agenzie governative tra loro e con la Presidenza. Impeccabile e convincente l'interpretazione di Liam Neeson e bravi tutti i comprimari: un film interessante e ben fatto. 

giovedì 19 aprile 2018

Io sono Tempesta

"Io sono Tempesta" di Daniele Luchetti. Con Marco Giallini, Elio Germano, Eleonora Danco e altri. Italia 2018 ½
Al solito, quanto maggiori sono le aspettative, tanto più cocente è la delusione quando risultano malriposte alla prova dei fatti, di conseguenza ancora più severo il giudizio. Giallini e Germano, che comunque tengono in qualche modo in piedi il film, da soli dovrebbero essere una garanzia, e così la regìa di Daniele Luchetti, che pure alcuni buoni film li ha girati, dopo Il portaborse che l'ha reso famoso. Diciamo che la commedia caciarona all'italiana non è nelle sue corde: e si vede. La domanda è perché ci sia cascato. Potrebbe anche funzionare l'idea di un film sulla cialtronaggine generalizzata, ma in tal caso sarebbe opportuno che emergesse da un racconto aderente alla realtà, di denuncia dura oppure, all'opposto, di satira feroce; qui si manda tutto in vacca fin dall'inizio, perché se le vicende di Numa Tempesta, un finanziere "senza fissa dimora" il quale vive in alberghi di lusso che compra quando sono sulla via del fallimento per rivenderli agli arabi o ai russi o trasformarli in sale bingo, gestisce fondi da milioni di euro ma finisce a scontare una vecchia condanna per frode fiscale ai servizi sociali ricordano in tutta evidenza da vicino quelle del pregiudicato brianzolo che condiziona non solo la vita politica ma l'abito mentale di una consistente parte degli italiani, qui si fa di ogni erba un fascio e tutto il Paese, in ogni suo aspetto, a cominciare dai canoni estetici (tatuati, mignotte rifatte e pagliacci, in più il tutto in romanesco) sembra in preda alla berlusconite, a cominciare dalla corte dei miracoli che il condannato si trova a dover accudire nel suo anno di "lavori sociali". E che il buon Numa, una simpatica canaglia dal volto umano e un cuore, in fondo, d'oro, circuisce per ricavarne un giudizio positivo come assistente sociale al fine di ottenere dalla direttrice della Onlus dove presta servizio, una beghina con qualche fregola residua, il benestare per riavere il passaporto allo scopo di portare a termine una speculazione in Kazakhstan. Alla fine anche i poveracci imparano presto la lezione della finanza creativa e Numa si redimerà in due modi: affidando loro una sala bingo e andando volontariamente in carcere non tanto a scontare la pena, ma a riallacciare il rapporto con un padre lo riteneva solo un povero coglione e la cui mancanza sembra averlo reso lo stronzo che è. Ossia, oltre al luogocomunismo che aleggia su tutto il film, per cui l'Italia è solo fatta da furbi, in sostanza: il vippume da un lato e il sottoproletariato straccione dall'altro, e in mezzo il pidiota come categoria umana nelle sue varie sfaccettature, in questo caso quello "cooperante" per carità cristiana, il precipizio nel baratro del buonismo più bieco e scontato. Una tristezza. Con queste premesse, arrivederci a chissà quanto, caro Luchetti...

martedì 17 aprile 2018

Qualcuno volò sul nido del cuculo


"Qualcuno volò sul nido del cuculo" di Dale Wasserman (dal romanzo di Ken Kasey). Traduzione di Giovanni Lombardo Radice, adattamento di Maurizio De Giovanni. Regia di Alessandro Gassman. Con Daniele Russo, Elisabetta  Valgoi, Mauro Marino, Giacomo Rosselli, Emanuele Maria Basso, Alfredo Angelici, Daniele Marino, Gilberto Gliozzi, Gaia Benassi, Davide Dolores, Antimo Casertano, Gabriele Granito. Produzione Fondazione Teatro di Napoli - Teatro Bellini. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 15 aprile; stasera e domani al Teatro Pax di Cinisello Balsamo (MI); dal 24 aprile al 6 maggio al Teatro Carignano di Torino; dall'8 al 13 maggio al Teatro della Corte di Genova. 
Ci voleva coraggio a proporre a teatro un testo (tratto a sua volta da un romanzo) reso famoso da un film diventato presto un classico, e ancora di più facendo uso, come Alessandro Gassman nel suo potente allestimento, di alcune tecniche cinematografiche tra cui proiezioni di suggestive immagini a dare colore a un'ambientazione altrimenti grigia come si confà a un ospedale psichiatrico (quello di Aversa, per la cronaca) e di una colonna sonora puntuale ed efficace a sottolineare i momenti cruciali (unico rilievo: il volume forse un po' alto: vero anche che mi trovavo a ridosso delle casse acustiche) ed è stato giustamente premiato dal pubblico: non è un caso che giri l'Italia da ben quattro anni collezionando tutto esaurito in serie a ogni latitudine della Penisola. Approdato nuovamente a Milano, questa volta ospite dell'Elfo proprio nella settimana in cui è scomparso Miloš Forman, il grande regista ceco che aveva portato la pièce sullo schermo, l'allestimento ha un valore aggiunto nella "napoletanità" sia dello scrittore, uno dei più validi contemporanei, che ha curato l'adattamento, Maurizio De Giovanni, sia della compagnia: la grande tradizione teatrale partenopea esalta quella coralità che il cinema non può offrire, e personalmente non ho dubbi nel preferire questa versione viva, vibrante, alla portata di tutti ma anche raffinata a quella cinematografica, pur rasentando quella di Forman il capolavoro, e le quasi tre ore di spettacolo non sono troppe, e anzi consentono a regista e interpreti di comunicare appieno, alternando momenti di divertimento con altri di riflessione profonda, leggerezza e durezza, gioia e dolore, azione e stasi, di far evocare tutti i possibili stati d'animo suscitati da una storia che più che la pazzia in sé racconta come la definizione stessa venga utilizzata per emarginare qualsiasi forma di devianza e comunque come la cosiddetta cura della malattia mentale sconfini nella crudeltà e nella mancanza di umanità. In questa versione il McMurphy di Jack Nicholson diventa il Dario Danise interpretato da un mobilissimo ed espressivo Daniele Russo, un mariuolo, uno scugnizzo invecchiato con poca voglia di lavorare che vive di espedienti e che si finge pazzo per evitare il carcere: mal gliene incoglie, perché finisce nel famigerato manicomio di Aversa, nell'estate del 1982, quella della storica vittoria dell'Italia ai Mondiali di calcio in Spagna, che diventano uno snodo della vicenda perché per avere il permesso di seguirli in TV Dario riesce a smuovere una comunità di degenti, ognuno coi propri tic e problemi mentali, altrimenti vittime della Istituzione Totale impersonificata qui da Suor Lucia  (Elisabetta Valgoi, qui efficace almeno quanto Louise Fletcher nel film). Terzo interprete che cito è il gigantesco Gilberto Gliozzi, il Grande Capo della versione cinematografica che si finge sordomuto perché ha paura di affrontare una realtà esterna che ritiene perfino più temibile di quella del manicomio, e qui diventa Ramon Machado, un sudamericano sbarcato in Italia dal Continente Desaparecido e che libererà dalla gabbia che è diventato il suo corpo Dario, che nel frattempo ha subito un intervento definitivo che lo ha reso un vegetale per contenere e punire il suo spirito ribelle che aveva finito per coinvolgere e far prendere coscienza agli altri "pazienti" che, a differenza sua, erano stati ricoverati per propria espressa volontà, e le sue intemperanze che hanno attentato all'Ordine Costituito. Bravissimi i tre attori che ho nominato ma all'altezza e affiatata l'intera compagnia, che dà vita a uno spettacolo memorabile, dai tempi perfetti, capace di intrattenere e al contempo far riflettere il pubblico, in ogni caso a coinvolgerlo in ciò che accade sul palcoscenico. 

domenica 15 aprile 2018

I segreti di Wind River

"I segreti di Wind River" (Wind River) di Taylor Sheridan, Elizabeth Olsen, Kelsey Chow, Graham Greene, Gil Birmingham, John Bernthal, Julia Jones e altri. USA 2017 ★★★★
Al secondo film da regista (il primo, Vile del 2011, era un horror che non mi risulta sia uscito sugli schermi italiani), Taylor Sheridan, che nasce come attore, ha deciso di mettersi dietro la macchina da presa per la terza sceneggiatura che ha dedicato alla Frontiera: nell'ottimo Sicario si trattava di quella tra California e Messico, in Hell o High Water delle aride distese del Texas, qui di una riserva indiana spersa nello Wyoming, e in tutti e tre i casi il tema è un' indagine e il personaggio centrale un poliziotto. In questa pellicola anche un cacciatore professionista, Cody, interpretato dal bravo Jeremy Renner, incaricato di uccidere i predatori che fanno strage di bestiame. In un luogo duro e ingrato, esistano anche predatori umani, in particolare nei confronti di giovani donne amerinde, come la figlia sedicenne dello stesso Cory, che mai ha saputo di preciso come fosse morta qualche anno prima. E' per questo antico dolore, che ha causato la separazione dalla moglie, un'indiana Arrapaho, che accetta di aiutare Jane, una Elizabeth Olsen che si difende bene, una giovane, inesperta e intraprendente agente del FBI, catapultata dalla torrida Las Vegas alla gelida primavera del Nord ad aiutare la scarsa e poco addestrata polizia locale quando lo stesso Cody, sulle tracce di un puma, avvista e trova il cadavere congelato e dissanguato di una diciottenne figlia di un suo caro amico indiano e amica del cuore della sua stessa figla. Egli accerta che ragazza ha corso per svariati chilometri per sfuggire a chi l'aveva aggredita, prima di morire, almeno in teoria e per la burocrazia, per cause naturali: aver respirato aria ghiacchiata che le ha procurato un'emorragia ai polmoni; ma ufficiosamente gli inquirenti sanno dal medico legale che è stata anche ripetutamente stuprata da più uomini. Il film si muove quindi sia sui piani del thriller, sia su quelli del western (e qui si innesta il tema della vendetta) sia su quelli della denuncia delle miserabili condizioni di vita nelle riserve, con gli anziani devastati dall'alcol, come i loro progenitori, e i giovani dalla droga, una polizia insufficiente e poco preparata, e delle assurdità come il fatto che la scomparsa delle donne native non rientra nelle statistiche nazionali: in sostanza sono messe nelle condizioni di essere delle facili prede per chi vuole abusarne, come per esempio avventurieri venuti dall'esterno a lavorare nelle concessioni petrolifere della zona, che è area di fracking. Paesaggi maestosi e desolanti, senso di solitudine ma esiste anche solidarietà, in un ambiente che sembra costringere l'uomo a essere "lupo" nel confronti del suo prossimo. Non è un film consolante, ma ben girato, onesto e convincente. 

sabato 14 aprile 2018

The Sound of Silence

La lezione dell'asinistra buonista, pacifista, politicamente corretta, che tifava Hillary Clinton e detestava Donald Trump. Tutti muti, sordi e ciechi, come le tre scimmiette: che spettacolo edificante! E a Damasco non sono mortaretti quelli che piovono, ma razzi.

venerdì 13 aprile 2018

Il giovane Karl Marx

"Il giovane Karl Marx" (Le jeune Karl Marx) di Raoul Peck. Con August Diehl, Stefan Konarske, Vicky Kriep, Olivier Gourmet, Hannah Steele, Niels-Bruno Schield e altri. Francia, Germania, Belgio 2017 ★★★★
Alla vigilia del bicentenario della nascita, esce anche in Italia il film biografico sulla fase cruciale della vita di Karl Marx, tra il 1843 e il 1848, gli anni dall'esilio a Parigi e poi a Bruxelles fino alla pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista a Londra nel febbraio del 1848, appena prima dello scoppio, su scala continentale, dei moti rivoluzionari di quell'anno (il che conferma ancora una volta quanto lui e il suo amico e soldale Friedrich Engels fossero "avanti" già da allora). Benemerito autore, il regista e documentarista, haitiano di nascita, e cosmopolita per vocazione, Raoul Peck, che ha il grande merito di aver girato un film necessariamente didascalico (e di grande precisione) ma anche godibile su un personaggio gigantesco per quel che ha significato e significa tuttora, che la cinematografia, anche quella sovietica, ha sempre trascurato nonostante la sua vita romanzesca e la sua stessa umanità, che ben si prestavano, assieme al rapporto con la moglie Jenny e l'amicizia fraterna con Engels, a essere raccontata anche come un'appassionante avventura con risvolti perfino romantici. Si può capire: Marx, per quanto citato, per lo più a vanvera, è sempre stato scomodo, e non stupisce che si siano ben guardati di affrontarlo i palafrenieri e agit prop a vario titolo di coloro che lo hanno tradito pur pretendendo di agire in suo nome; ha potuto e saputo portarlo sullo schermo, con un film in costume divulgativo quanto si vuole ma anche in forma di commedia storica, un intellettuale e regista rigoroso e credibile. Si parte dunque dalla redazione della Rheinische Zeitung a Colonia nel 1843, quando Marx si dimise da caporedattore e venne arrestato per passare a Parigi, dove si trasferì con l'amata moglie Jenny e la prima figlia e vi conobbe Engels, figlio di un facoltoso industriale tessile che, lavorando nell'azienda paterna ebbe modo di studiare da vicino la situazione della classe operaia, con cui strinse un'amicizia e un sodalizio intellettuale che durò tutta la vita e anche oltre, e poi a Bruxelles. Furono gli anni in cui scrisse La miseria della filosofia, confutando le tesi dell'anarchico Proudhon, che andavano per la maggiore; La sacra famiglia, ossia la Critica della critica critica contro Bruno Bauer e la sua "consorteria"; la fondamentale e decisiva Ideologia tedesca, in cui è contenuta una prima formulazione della concezione materialistica della storia, fino ai viaggi a Londra e alladesione alla Lega dei Giusti, poi Lega dei Comunisti, per cui Engels lo convinse a scrivere il Manifesto. In mezzo, la vita quotidiana della famiglia Marx e le sue continue traversie economiche, sempre sanate dall'intervento di Engels; gli incontri con le maggiori personalità dell'epoca (c'è anche Mikhail Bakunin), le discussioni appassionate, soprattutto l'amicizia a tutto tondo con Friedrich Engels, una sorta di simbiosi, da cui la loro fertilissima collaborazione, e un personaggio che prende corpo ed è reso più che credibile da un'interpretazione che si percepisce sentita di August Diehl, e lo stesso vale per Stefan Konarske e Vicky Kriep nei ruoli di Engels e Jenny. Un film che non delude nemmeno gli studiosi del genio di Treviri, per la puntualità delle citazioni, senza renderle mai pedanti. Grazie!

mercoledì 11 aprile 2018

La falsa concorrenza


L'omo de sinistra, specialmente in Italia, è uno strano animale, ma non troppo difficile da capire conoscendone provenienza e storia; in particolare il pidiota, che ne è l'ultima incarnazione: e non c'è da stupirsi, essendo il prodotto di due partiti, o se vogliamo linee di pensiero e modi di essere, dogmatici, fideisti, che per loro natura hanno fatto riferimento a potentati extraterritoriali il cui interesse prioritario non è mai il benessere del cittadino e il libero sviluppo delle sue potenzialità individuali. Di qui una costante, ancor più vera per quanto riguarda i pidioti provenienti dalla filiera PCI-PDS-DS (ma anche i postdemocristiani non scherzano) per cui il vero nemico, quello contro cui si riversano gli strali della scomunica, le ingiurie, si esercita senza ritegno l'arte della calunnia personale e del travisamento dei fatti fino alla riscrittura della storia (in questo i comunisti sono maestri imbattibili per forma mentale) è quello più vicino. E' risaputa la parola d'ordine che rispunta a ogni appuntamento elettorale: nessun nemico a sinistra (qualsiasi cosa voglia significare questo termine, a parte un'indicazione geografica). Con l'avversario (si fa sempre per dire), gli accordi si trovano sempre, più o meno alla luce del sole o completamente sottobanco: dalla Solidarietà nazionale anni Settanta ai Governi del presidente, cfr Napolitano, fino agli accordi locali e alle spartizioni di poltrone nelle aziende pubbliche, ne abbiamo infiniti e nefasti esempi. Stessa musica anche in occasione delle ultime politiche di inizio marzo: per tutta la campagna elettorale (in realtà per l'intera legislatura, guidata da partito-padrone e prenditutto in base a una maggioranza ottenuta con una legge farlocca e incostituzionale, oltre che col determinante voto degli italiani all'estero) è stato un dargli addosso al Movimento Cinque Stelle, in particolare attraverso una indecente campagna ad personam contro la sindaca di Roma Virginia Raggi, e vanno avanti tuttora a fare gli sdegnosi non accorgendosi, non si capisce se per limiti propri o solo perché fanno finta, che nella sua marcia di avvicinamento al potere, quello fondato da Casaleggio e Grillo si è sempre fatto più partito perdendo man mano le caratteristiche che gli erano proprie. Già avevo notato (e fatto notare) che nel programma elettorale del M5S non si faceva più cenno all'abolizione dell'obbligo di pareggio di bilancio in Costituzione e, tra i "punti per un governo", a una sostanziosa riduzione delle spese militari e alla rinuncia all'acquisto di ulteriori F-35, al rientro dalle missioni internazionali, men che mai a una revisione degli accordi con la NATO, per non parlare della marcia indietro sull'UE e la sua moneta, con il Capo Politico a rassicurare il potere finanziario qui e là in processione tra Washington e Bruxelles. Nella sua definitiva incarnazione in versione Di Maio, è diventato sostanzialmente un clone del PD, col quale peraltro ha in comune la dimensione dogmatica e la tendenza ad adattare la realtà alle proprie fantasie (e desideri): ciò che li differenzia è l'età media e quindi la maggiore freschezza e adattabilità a nuovi schemi da parte dei pentastellati. Che per quanto li riguarda è ovvio si rivolgano in primis al PD, che sentono più vicino, per formare un governo. Altrettanto ovvio, per i motivi specificati all'inizio, ossia l'orrore per la concorrenza sul proprio terreno, che er popolo d'asinitra, in particolare il militonto ottuso, ammaestrato da decenni di obbedienza cieca ai dettami della Ditta, per un riflesso pavloviano, recalcitrino e rifiutino sdegnosi qualsiasi profferta, ma tranquilli che i dirigenti pidioti più scaltri e scafati si stanno già riposizionando e dandosi da fare per cambiare la linea in corsa, per cui, al termine dei giri di consultazioni con la mummia che siede al Quirinale, non mi meraviglierei di ritrovarci con l'ennesimo governo all'insegna del ce lo chiede l'Europa (e, di conseguenza, FMI, Banca Mondiali, NATO, i Mercati... magari perfino La Scienza). Quanta stabilità possano poi garantire le vecchie puttane presenti nel PD, e che sicuramente non mancano nel M5S, è ovviamente un altro paio di maniche e comunque, per quel che mi riguarda, appassiona poco. Salvo qualche volta, così per gioco. 

martedì 10 aprile 2018

Tonya

"Tonya" (I, Tonya) di Craig GIllespie. Con Margot Robbie, Sebatsian Stan, Allison Janney,  Paul Walter Hauser, Juliane Nicholson e altri. USA 2017 ★★★★
Ossia The rise and Fall of Tonya Harding: ricordavo la potente, volitiva, irascibile, pattinatrice americana al culmine della sua breve, scintillante e sfortunata carriera sportiva ma non avevo seguito i dettagli delle complicazioni giudiziarie che vi avevano posto fine, e che invece negli USA avevano riempito per mesi giornali, magazine, talk show, in una specie di prova generale del caso OJ Simpson che ne prese il posto poco dopo, a metà degli anni Novanta, in un classico caso di demolizione sistematica di un personaggio da parte degli stessi media che l'avevano portato in auge per i suoi successi, "perché l'America vuole qualcuno da amare... ma anche qualcuno da odiare", come disse lei stessa, che stava al mondo ovattato e snob del pattinaggio artistico su ghiaccio come Paperino al resto dei beneducati personaggi disneyani. Nata da una famiglia povera a Portland, nell'Oregon, costretta a vivere con una madre carogna, semialcolizzata e anafettiva dopo che il padre, con cui aveva un buon rapporto, fu costretto ad andarsene, che la portò a prendere lezioni fin dall'età di quattro anni riversando su di lei tutte le sue ambizioni di rivincita, raggiunse le vette della sua specialità in breve tempo potendo contare su un talento naturale immenso e una potenza e determinazione che le rivali non avevano, e questo pur essendo asmatica e pesante fumatrice, e benché avesse un pessimo rapporto con le azzimate giurie, con cui litigava sistematicamente: era sboccata, sceglieva musica rock per le sue esibizioni, si cuciva da sola, o con l'aiuto della madre, completi pacchiani e per niente "carini". Come se non bastasse, era talmente abituata a prendere sberle dalla madre che le sembrò naturale riceverne anche da Jeff Gillooly, il primo ragazzo che divenne presto suo marito e manager, in qualche modo convinta di meritarsele per il suo comportamento e l'incapacità di adattarsi "tenere il becco chiuso". Il tutto finché non venne coinvolta nella vicenda, mai del tutto chiarita, dell'aggressione a Nancy Kerrigan, sua collega e rivale, alla vigilia delle Olimpiadi di Lillehammer del 1994, orchestrata dall'ormai ex marito con un suo amico e guardia del corpo, un mitomane palesemente mentecatto, che portò a una clamorosa vicenda giudiziaria. Ideatori ed esecutori della demenziale intimidazione ebbero condanne risibili, chi pagò con la radiazione da ogni attività sportiva e una multa spropositata fu la Harding, che tutt'al più aveva saputo dell'esistenza di un piano di minacce verbali alla Kerrigan, così come le aveva ricevute lei. Sia come sia, la sua vicenda, dai 4 ai 44 anni, quando concluse una seconda carriera nel pugilato femminile (le botte rimanevano nel suo destino) è raccontata in modo originale in base a false interviste (messe in bocca agli interpreti, tutti convincenti e straordinariamente simili agli originali) ma veritiere nel contenuto, contraddittorie, perché "ognuno ha la sua verità", spettacolari esibizioni su ghiaccio, interni di case proletarie e periferie altrettanto squallide, toni da commedia dark che richiamano immediatamente alla mente Fargo, personaggi autolesionisti e oltre i limiti della stupidità umanamente accettabile, ma per questo tanto credibilmente e completamente "americani", un'America che si tende a nascondere sotto il tappeto ma esiste eccome, ed è quella che non ha possibilità di riscatto, proletarizzata, lasciata pascere nella sua ignoranza (Tonya stessa riconosce che le mancano educazione e studi decenti), ma abbagliata dalla possibilità di estrarre, applicandosi oltre i propri limiti e senza aver riguardo per nessuno nella competizione, il biglietto nella lotteria della fortuna e del successo american way. Bravissimi gli interpreti, con Margot Robbie che riesce sorprendentemente a rendere ogni sfaccettatura della Harding, ma indimenticabile rimane Allison Janney nei panni di sua madre LaVona. Un film che vale la pena vedere e che merita.

domenica 8 aprile 2018

Contromano

"Contromano" di Antonio Albanese. Con Antonio Albanese, Alex Fondja, Aude Legastelois, Daniela Piperno, David Anzalone e altri. Italia 2018 ★★+
Voglio bene ad Antonio Albanese, che è una persona a modo, intelligente e sensibile prima ancora che un comico di razza e un grande attore, quando gli viene data l'opportunità, e lo vedo all'opera sempre volentieri, ma questo suo quarto lavoro da regista funziona soltanto a sprazzi, per alcune intuizioni felici, soprattutto all'inizio, ma che non vengono sviluppate e portate fino in fondo con convinzione e conseguentemente. Mario Cavallaro è il titolare di un prestigioso negozio di calze, cravatte e accessori maschili nel centro di Milano ereditato dal padre, ed è un uomo di mezza età metodico, ordinato quasi fino alla maniacalità, e che nell'abitudinarietà trova una sicurezza che, nella sua solitudine, non ha. Ad alleviarla, il rapporto di mutua assistenza con una matura vicina di casa e la sua vera passione: la cura di un orto, definito divino dalla sua amica, che si è costruito sulla terrazza del condominio in cui abita (tra Via Larga e Largo Richini a Milano, e non credo di sbagliare, mentre il negozio si trova nei pressi dell'Arco della Pace). Quindi qualsiasi cambiamento lo indispone, a cominciare dalla vendita del bar sottocasa che frequenta da trent'anni "all'egiziano del kebap", dai venditori di ombrelli maghrebini e pakistani, di fiori cingalesi, per non parlare del senegalese Oba che gli si è piazzato proprio davanti al negozio smerciando calze scarsa qualità e che scambia filo di Scozia con filo di Svezia, peraltro con permesso di soggiorno scaduto e pure piuttosto stronzo. Elabora così un piano per addormentarlo, rapirlo e riportarlo a casa sua: "ché se tutti facessero così, un po' di turismo umanitario, il problema sarebbe risolto". Fin qui tutto bene, ma poi il film si incaglia, non tanto e non solo per l'improbabilità delle situazioni ma perché si innesta una parte sentimentale che è poco congruente: Oba infatti riesce a liberarsi, colpendo Mario lo fa svenire e, disperato, lo porta nella casa in cui la sua fidanzata Dalida, che fa passare per sorella, accudisce lo handicappato e carogna David Anzalone (per quanto incongruente nell'economia del racconto, un lampo di cattivismo). Quando Mario si risveglia, si invaghisce immediatamente di questa fata, che gli racconta che è morto il padre e così il nostro si offre di portare entrambi con la sua Panda fino in Senegal, passando per Tangeri e il Marocco, quasi in una rivisitazione di Tournée trent'anni dopo. Mario tiene botta anche quando scopre l'inganno, perché in realtà Dalida ci tiene a tornare in patria per sposarsi con Oba. Il finale vede un capovolgimento di ruoli, con Dalida che diventa una classica sciura milanese, Oba un commerciante, il figlioletto della coppia, nonché figlioccio di Mario che da questi ha preso la puntigliosità e il senso dell'ordine mentre  il Nostro che li aiuta a casa loro insegnando agli indigeni a coltivare come si deve e sviluppando al contempo in grande la sua passione per l'orticultura. Insomma troppa roba al fuoco e scombinata: funziona come sempre la maschera un po' surreale di Albanese/Mario, a cui non ci si può non affezionare, e regge quando emerge la giusta cattiveria, e anche quando non nega, come fanno i paladini dell'accoglienza a oltranza, il conflitto, quindi a maggior ragione sconcerta la caduta nel buonismo, per quanto venato di ironia, e nel "siamo tutti fratelli". Insomma, certamente mi aspettavo qualcosa di più.

mercoledì 4 aprile 2018

Ready Player One

"Ready Player One" di Steven Spielberg. Con Tye Sheridan, Olivia Cooke, Ben Mendelsohn, T. J. Miller, Simon Pegg, Mark Rylance e altri. USA 2018 ★★★½
L'ultimo, atteso film di Spielberg, quasi un omaggio al suo cognome (nomen omen: in tedesco Spiel significa gioco), uscito a poca distanza dal potente The Post, rappresenta alla perfezione il prolifico e poliedrico regista, nei suoi grandi pregi come geniale uomo di spettacolo, arte di cui domina alla perfezione i meccanismi, e potenziali difetti, come il citazionismo e il sostanziale infantilismo, ma sta proprio nella sua insaziabile curiosità da eterno bambino e di sperimentatore, nuovamente, il suo punto di forza e il motivo per cui riesce a portare al cinema e ad affascinare, con una pellicola sui videogiochi di ruolo, anche chi ne è estraneo. Perché di un viaggio nel puro intrattenimento si tratta, con particolare riferimento agli anni Ottanta in cui presero piede i primi giochi di simulazione, con una premessa, se vogliamo, "politica": siamo nel 2045 a Columbus, capitale dell'Ohio, dove un'umanità derelitta vive nelle "cataste", ossia container impilati uno sull'altro, e la vita reale si è fatta così insopportabile e senza prospettive che tutti si dedicano costantemente a viverne un'altra, virtuale, costantemente connessi, attraverso degli avatar. Tra questi il giovane Wade Watts, rimasto orfano di genitori che non sono stati capaci di adeguarsi dopo l'ultima crisi che ha attraversato il pianeta, grande appassionato di Oasis, il gioco creato dal geniale e stralunato James Haliday che, prima di morire, vi ha depositato "un uovo di Pasqua", ossia nascosto un livello segreto, accedendo al quale si possono cercare e trovare tre chiavi, conquistate le quali il vincitore assumerà definitivamente il controllo di Oasis ereditando la compagnia da lui fondata. I "cacciatori" possono correre singolarmente ma in genere si associano in clan, ma non sembrano avere chance contro un avversario come la 101, una multinazionale dei media che può mettere in campo migliaia di giocatori guidati da informatici ed esperti, presieduta dall'avido e cinico Nolan Sorrento. Wade/Percival si associa con altri quattro avatar con cui entrerà in contatto anche nel mondo vero: Samantha/Artemisia (con cui è amore a prima vista, virtuale così come reale), una informatica di colore esperta in marchingegni meccanici, due giapponesi, uno dei quali un genietto undicenne. I due piani si confondono, ma il paradosso è che occorrerà vincere la sfida e ribellarsi nel mondo virtuale, ossia nell'universo di Oasis, perché rimanga in vita una vaga possibilità di cambiamento in quello reale: nel film Spielberg si limita a prefigurare una vita borghese in cui la coppia Wade/Samantha gode del benessere materiale conquistato: una casa confortevole e bene arredata, senza essere costretta a essere connessa a Oasis tutto il giorno e Nolan Sorrento e la sua factotum alle prese con la giustizia per le loro malefatte, ma si ignora cosa possa essere accaduto alle altre centinaia di milioni di partecipanti al gioco. In sostanza: i due e i loro soci hanno estratto i numeri vincenti della lotteria americana della felicità: mettendocela tutta ce l'hanno fatta e hanno conquistato il "diritto" di godersela; per tutti gli altri partecipanti, vale il detto decoubertiniano che "è stato bello partecipare" e chi si è visto si è visto. Insomma , gratta gratta la solita storia dell'American Way of Life e del self-made-man (o woman, e pure gialli e neri, già che ci siamo ché siano politically correct, e Spielberg per primo). Il tutto con una colonna sonora che più anni Ottanta non si può, gradevolmente disimpegnata. Come detto, pregi e difetti dell'uomo: un fenomeno dell'intrattenimento, ma pur sempre un americano in tutto e per tutto. E un eterno bambino.

lunedì 2 aprile 2018

Io c'è

"Io c'è" di Alessandro Aronadio. Con Edoardo Leo, Giuseppe Battiston, Margherita Bui, Giulia Michelini, Massimiliano Bruno e altri. Italia 2018 ★★+
Seconda regia del giovane regista romano dopo il lusinghiero successo di Orecchie, che purtroppo non ho ancora avuto modo di vedere, Io c'è parte da uno spunto promettente e coraggioso (come lo è fare uscire un film squisitamente ateo, che potrebbe sembrare prodotto dall'UAAR, durante il periodo di Pasqua): inventarsi una religione e farla riconoscere seguendo l'iter burocratico previsto per la registrazione allo scopro di evitare di pagare le tasse, ma a metà film pare che prenda sopravvento il braccino del tennista e non solo il ritmo cala ma la trama prende altre strade e l'idea originale non viene portata fino in fondo: il cialtrone che ha avuto la geniale trovata ed è diventato il guru del nuovo credo, quando si rende conto che gli adepti sono ben più convinti dei principi della nuova religione (l'ionismo, che si basa in sostanza sulla sana fiducia in sé stessi) di quanto lo sia lui stesso, ha una crisi di coscienza e il racconto, invece di continuare a infierire sulle imposture propinate all'umanità dall'alba dei tempi con forme sempre diverse ma sostanza sempre identica e portare l'affondo preferisce piegare sul versante buonista e il volemose bene ed è un vero peccato. Edoardo Leo, che ha collaborato alla sceneggiatura, è Massimo, un figlio di papà che ha scialacquato il capitale ereditato prima di diventare gestore di un B&B, "Miracolo Italiano", che dopo il fatidico 2008 e la successiva Cura Monti va in crisi per la concorrenza di un convento di suore che offre ospitalità in cambio di donazioni "volontarie" di 40 € a botta senza ricevuta e obbligo di dichiarazione e così, con l'aiuto della più quadrata sorella commercialista, Adriana (Margherita Buy), decide di trasformare l'esercizio nel luogo di culto, e quindi esentasse, di una nuova religione di cui l'intellettuale Marco, uno scrittore  colto, vanesio e astuto (Giuseppe Battiston), diventa l'ideologo, o sarebbe il caso di dire teologo. E fin qui siamo nell'ambito della satira, a tratti dissacrante e ricca di battute la vetriolo (prossimo traguardo: l'otto per mille dice Marco per motivare il recalcitrante Massimo a proporsi nella parte del Messia di turno) ma, come detto, a metà percorso la pellicola si ammoscia, e non per demerito degli interpreti e probabilmente nemmeno del regista, che ha dimostrato di saperci fare, ma per decisioni della produzione ed è un'occasione persa.