lunedì 26 febbraio 2018

Il padre


"Il padre" di Johan August Strindberg. Regia di Gabriele Lavia. Con Gabriele Lavia, Federica Di Martino, Giusi Merli, Gianni De Lellis, Michele Demaria, Anna Chiara Colombo, Ghennadi Gidari, Luca Perdron. Scene di Alessandro Camera; costumi di Andrea Viotti; Luci Michelangelo Vitullo; musiche di Giordano Corapi. Produzione Fondazione Teatro della Toscana. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano
Delusione, ma un po' me l'aspettavo. Uno studio-salone ottocentesco sontuosamente drappeggiato di rosso, una sceneggiatura indubbiamente suggestiva con una scrivania, un divano, alcune poltrone, tutti però sghembi, in equilibrio precario, vicino al crollo come il personaggio su cui si incentra la tragedia, Adolf, un capitano di cavalleria, alle prese con l'ossesione di essere stato un figlio non voluto dalla madre, che fa i conti con il femminino: non quello all'esterno, la figlia Bertha, che adora, la moglie, Laura, la vecchia tata, che considera la vera madre, e da cui pure verrò tradito, ma da quello riposto in sé. L'incipit è persino brioso (rispetto al resto), con il capitano che deve rimediare a un "incidente" in cui è incorso un suo soldato: aver messo incinta una servetta. Come risolverlo? Obbligando il giovinastro a prendersi le sue responsabilità o sostenere che potrebbe non essere stato lui il responsabile? Intanto il tarlo si insinua e ad avvedersene è la fredda e calcolatrice Laura, che trova il modo di instillare al capitano ancor di più il dubbio in seguito a delle  divergenze riguardo alla educazione della figlia e che man mano lo porterà alla follia, assecondando i piani della moglie, con la complicità dell'amico medico e perfino dei suoi attendenti, di farlo interdire legalmente. Anche giustamente, perché l'uomo, a tutta evidenza l'alter ego di Strindberg, alle prese per tutta la sua vita con le stesse nevrosi, alla fine impazzisce davvero, incapace di confrontarsi alla pari con le donne della sua vita (oltre alle tre in scena anche la suocera e la madre) e in totale crisi di ruolo. E fin qui passi, ma dopo un quarto d'ora l'andamento diventa sempre più lento, tedioso, oberato da una recitazione eccessivamente impostata e da movenze prevedibili e stereotipate, un trionfo del birignao, una parola che non usavo da molti anni, a cominciare da Gabriele Lavia. Bravo attore, senz'altro, ma non un grande come probabilmente si ritiene: la sua fama supera di gran lungo i suoi pure indubbi pregi. Come non bastasse, pure le nenie cantate dalla tremolante voce della vecchia tatina e i bamboleggiamenti ridicoli e imbarazzanti nell'interlocuzione tra lei e il "sempre suo bambino". Già il testo di Strindberg, che ha a che fare con ogni evidenza con la psicopatologia, tutta scandinava, dell'autore; ma proporre le sue turbe e la tematica antica quanto l'umanità del mater semper certa, pater nunquam, nell'epoca del test del DNA e pretendere di farne uno spettacolo al passo coi tempi, quasi  una sorta di manifesto femminista ante litteram però scritto da un uomo che si autoflagella, magari ammiccando al movimento #MeToo con la pretesa di essere preso sul serio mi pare francamente eccessivo. Quasi due ore l'interminabile primo atto, ma solo 25', grazie al cielo, per il finale in cui cambia lo scenario: una suggestiva foresta (forse) evocata sempre con un drappeggio di velluti rossi: qui avviene la caduta finale del povero Adolf. Non proprio nel ridicolo, ma insomma... Poco convincenti, forse perché poco convinti, voglio essere generoso, anche gli altri interpreti. Sconcertante è stato assistere a uno spettacolo simile ospitato in un teatro dove la rilettura moderna dei classici e dei temi davvero eterni è di casa. Mah...

Nessun commento:

Posta un commento