sabato 21 ottobre 2017

Il palazzo del vicerè

"Il palazzo del vicerè" (Viceroy House) di Gurinder Chadha. Con Hugh Bonneville, Gillian Anderson, Manish Dayal, Huma Qureshi, Lily Travers e altri. GB, India 2017 ½
Mah. Sostanzialmente un film in costume, con gran sfoggio di divise colorate, arredi ricercati, cerimoniali sfarzosi, edifici sontuosi dagli interni mirabolanti, il tutto con l'immancabile inserto mélo strappalacrime per venire incontro al pubblico di bocca buona, per uno spot in riabilitazione postuma di Lord Mountbatten, l'ultimo vicerè dell'India, facendolo passare per uno sprovveduto, ma di buon cuore, pur di non attribuirgli la responsabilità di una Partition che causò la spaccatura dell'India e lo sradicamento di 14 milioni di indiani nel momento in cui le fu concessa l'indipendenza. Siamo alla vigilia del giorno fatidico, l'11 agosto del 1947, e il nuovo vicerè, già acclamato liberatore della Birmania, si insedia a Delhi con moglie, figlia e cane con l'incarico di procedere alla transizione. Il tempo è poco, e dopo aver consultato i principali leader delle diverse fazioni, principalmente Nehru per gli indù e Jinnah per i musulmani, con l'intervento super partes ma inascoltato del Mahatma Gandhi, addiviene controvoglia alla decisione di creare un nuovo Stato, il Pakistan a sua volta diviso in due parti separate tra loro da più di duemila chilometri (l'attuale Bangladesh con capitale Dacca). Di tracciare la linea di confine viene incaricato un oscuro legale inglese che mai era stato in India, armato di carte geografiche e statistiche di censimenti che, non raccapezzandocisi più, alla fine viene costretto a fare proprie le indicazioni contenute in un documento segreto sulla sicurezza nazionale stilato dai massimi esperti militari e controfirmato da Churchill dopo la fine della guerra (sostanzialmente un patto fra questi e Jinnah) con lo scopo di frenare eventuali appetiti russi (siamo ancora alle code del famoso Grande Gioco, che produce strascichi ancora oggi in tutta quell'area, a cominciare dall'Afghanistan). Secondo questa tesi, i confini non vennero tirati "a cazzo di cane" con un righello e senza avere idea della composizione etnica delle zone miste (come invece fu in Africa e Medio Oriente),ma secondo una logica ben precisa e fottendosene degli eventuali strascichi, comunque ormai sul groppone di altri. L'unica cosa inopinabile, come recita una didascalia a premessa del film, è che la storia viene scritta dai vincitori; altrettanto incontestabile è che gli inglesi, applicando scientificamente il principio divide et impera, hanno sempre favorito le minoranze, sikh e musulmani innanzitutto; detto questo, il film è smaccatamente filo-indiano nonché tenero fino alla piaggeria nei confronti degli inglesi, presi a esempio per la loro capacità di governare etnie incapaci di farlo da sole (di evidenza palmare proprio la Partition) nonché per la cultura, ad esempio il Dickens letto dal carceriere indiano al prigioniero politico musulmano cieco: e qui subentra l'intreccio bolliwoodiano, ossia la struggente quanto improbabile storia d'amore tra Jeet, ex secondino e ora attendente indù di Mountbatten e Alia, assistente di Lady Mountbatten, la figlia del prigioniero musulmano di cui sopra, che corre parallela alla vicenda storica come interpretata dalla regista (indiana) e dal libro di Narendra Singh Sarila che l'ha ispirata: The Shadow of the Great Game - The Untold Story of India's Partition. Naturalmente trionfa lo happy and, in barba ai due milioni di morti risultato della creazione dal nulla di uno Stato da parte degli inglesi con la benedizione dell'Amico Americano, il vero fruitore finale dell'accordo Churchill-Attle-Jinnah. Tanto colore folkloristico e buonismo a piene mani su sfondi palesemente di cartapesta, si salva la recitazione dei due interpreti principali, Hugh Bonneville nei panni di Lord Mountbatten e Gillian Anderson in quelli della moglie Edwina, fatta passare per una benefattrice socialisteggiante per gli aiuti ai rifugiati dopo la partizione del Paese, mentre prima di giungere a Delhi era famosa per il suo libertinaggio (potendoselo permettere), una specie di puttanone, ma questo il film non lo dice; su quella degli interpreti di Jeet e Alia preferisco sorvolare. Incomprensibile l'indulgenza della critica nei confronti di questo film, che invece non era stata altrettanto generosa con I figli della mezzanotte sullo stesso argomento, probabilmente perché Salman Rushdie (che l'aveva sceneggiato) non è abbastanza politicamente corretto, e che sotto ogni aspetto era di un'altra categoria. 

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