domenica 19 marzo 2017

Loving

"Loving" di Jeff Nichols. Con Joel Edgerton, Ruth Negga, Marti Csokas, Terry Abney, Nock Croll, Alano Miller, Michael Shannon, Sharon Blackwood, Bill Camp e altri USA 2016 ½
Quanto debba essere sporca la coscienza nel Grande Paese delle Libertà e delle Opportunità al di là dell'Atlantico anche da parte dell'establishment progressista che domina a Hollywood e dintorni, il tutto acuito dal non essere stato in grado di produrre un'alternativa credibile a un personaggio come Donald Trump alle recenti elezioni presidenziali, lo testimonia la contemporanea presenza di tre film che hanno per argomento la segregazione razziale: lo squallido e imbarazzante Moonlight, il Loving in oggetto, già un poco più guardabile, e Il diritto di contare che, visti i due precedenti, comincio ad avere qualche dubbio se affrontare, anche se pare fornito di maggiore verve dei due precedenti. Loving ha l'indubbio merito di far conoscere una vicenda che ha avuto un'importanza storica perché portò, nel 1967, a una sentenza della Corte Suprema degli USA che dichiarò incostituzionale il Racial Integrity Act dello Stato della Virginia, che vietava i matrimoni interrazzali, ancora in vigore perfino dopo la promulgazione del Civil Rights Act da parte di Lyndon Johnson nel 1964, che poneva fine, almeno in linea teorica, alla discriminazione razziale nel Paese e questo ben un secolo dopo l'abolizione della schiavitù da parte dl Lincoln col 13° emendamento alla Costituzione (quest'ultimo particolare non viene sottolineato nemmeno dalle didascalie finali), ma i pregi della pellicola si fermano qui. Siamo nel 1959 e Richard Loving, un muratore con la passione dei motori, tanto bianco da sembrare quasi un albino, per sposare la sua amata Mildred, nera, anzi: sanguemisto, deve recarsi a Washington ma la coppia viene arrestata nello Stato di residenza, la Virginia, dove vive nella casa dei genitori di lei (le Virginia rurale, per la sua interrazzialità, faceva eccezione nel panorama degli Stati Uniti del Sud): Richard esce subito di prigione su cauzione, lei viene trattenuta per alcuni giorni, benché incinta. Per risolvere la questione, patteggiano la pena dopo essersi dichiarati colpevoli e il giudice dispone che non possano rientrare insieme in Virginia per i 25 anni successivi, così che i due coniugi si trasferiscono a Washington, dove non si ambientano e decidono di tornare; ma assieme torneranno le grane con sceriffo e giudici. Mildred decide di rivolgersi all'allora ministro della Giustizia Robert Kennedy che li affida agli avvocati della ACLU, Unione Americana per i Diritti Civili, i quali riescono a portare il caso alla Corte Suprema, vincendolo. Il problema è che il film è di una lentezza esasperante, spezzettato in brevi episodi che si ripetono: Richard al lavoro, con cazzuola e livella a bolla, o alle prese con un motore; Mildred in cucina o ad accudire i figli; il parentado silenzioso: nessuno parla mai dell'argomento. Richard, che testimonianze dal vero, a cominciare dal fotoreporter di Life Grey Villet, un sudafricano che ben conosceva la segregazione razziale e prese a cuore la loro vicenda, era sicuramente una persona semplice e taciturna, ma il film lo presenta ai limiti dell'autismo; pure Mildred era una donna discreta, ma non è possibile che i due coniugi e la loro variegata parentela non comunicassero, né che Richard non interloquisse o quasi coi suoi compagni di lavoro (prevalentemente bianchi). In questa afasia generalizzata, si inseriscono nella mezz'ora finale i due avvocati che si occupano della questione e la pellicola prende un minimo di vita, ma troppo poca per un risultato accettabile, e questo nonostante la bravura degli attori, che a tutta evidenza si limitano a fare quel che chiede loro un regista dalla mano non particolarmente felice (fra l'altro, che l'interprete di Mildred, Ruth Negga, fosse etiope o eritrea, e quindi improbabile come discendente di schiavi afroamericani, l'avevo capito prima ancora di aver controllato la sua biografia). Raccontare in modo non plausibile una storia vera significa rendere un pessimo servizio sia alla verità sia a una causa meritevole; farlo attraverso i cliché dei neri remissivi e sempre rispettosi della legge, alla "sì buana", è perfino insultante nei loro confronti, e questo senza parlare della svergognatezza di una Nazione che si dice portatrice di valori universali di uguaglianza e libertà, e che per diffonderli per il mondo non esita a usare le armi, ma non è nemmeno in grado di applicare la Costituzione in casa propria. Insomma un'altra dose letale di buonismo a buon mercato. Non è un caso che l'unico che cinematograficamente abbia detto qualcosa di serio sul razzismo negli USA, rendendo al contempo giustizia a chi ne è vittima, sia un regista bianco, d'origine italiana, fuori dagli schemi e politicamente scorretto come Quentin Tarantino, soprattutto in Django Unchained, a mio parere un capolavoro assoluto. Perché non è un ipocrita, oltre a sapere usare la macchina da presa e utilizzare degnamente gli attori; e in grado di raccontare verità attraverso storie inverosimili. 

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