giovedì 29 dicembre 2016

Adiós, Comandante Andrea!


La sberla è arrivata, inaspettata, lunedì sera, mentre preparavo la tradizionale cena postnatalizia tra amici e parenti a base di gulasch, via SMS da Giuàn, mio brat milanese, "E' morto Andrea Bellini". Aveva 65, sei in più di quanti ne avesse suo fratello minore Gianfranco, scomparso nel 2012. Non un incidente, non un ictus: l'ha consumato un maledetto cancro, avrei appreso qualche ora dopo. Difficile immaginarlo malato: alto, imponente, gli occhi azzurri vivissimi, qualche filo biondo tra i capelli ormai radi e la barba che si era fatto crescere, curatissima. Non l'avevo più visto nelle mie ultime e sempre più rare escursioni milanesi; l'ultima volta, come sempre, circa un anno fa a pranzo da "Rattazzo", al Ticinese, luogo d'incontro di reduci di una Milano ormai scomparsa sopravvissuto alla gentifricasiùn della globalisasiùn che ha devastato il tessuto umano di tutti i quartieri popolari della città espellendone gli abitanti e immiserendola. Voce stentorea, accento marcatamente meneghino quando non parlava direttamente in dialetto, una rarità assoluta, ormai, aveva sempre il piglio del ganassa, come si dice appunto in milanese, del guascone, ma era fondamentalmente un buono, affettuoso, generoso, sincero e leale con gli amici. Una figura controversa negli anni Settanta, conosciuto da chiunque li avesse vissuti politicamente e detestato da molti: non solo dai fascisti ma anche da certo "compagnume", picciisti ed ex Statalinisti in testa, in particolare era odiato dai katanga, il servizio dì'ordine (si fa per dire) del Movimento Studentesco che aveva la sua base all'Università Statale di Via Festa del Perdono. L'avevo visto la prima volta lì, nel tardo pomeriggio del 12 dicembre del 1970, in occasione della manifestazione nel primo anniversario della strage di Piazza Fontana, quando lo spezzone anarchico venne caricato in Via Torino e inseguito fino in Via Pantano e dintorni e respinto dai "katanghesi" e quindi preso in mezzo e massacrato: fu in occasione degli scontri successivi che perse la vita Saverio Saltarelli, e quelli del MS non mancarono di far notare canagliescamente che la responsabilità era di coloro che avevano portato celerini e carabinieri sul "sacro suolo" che circonda la Cà Granda, e quindi nostra: Andrea fu tra quelli che ci salvarono dalla furia dei poliziotti. Il resto, fa parte della storia, la nostra piccola grande storia, una sorta di mito: quello degli sconfitti. Per me era come un fratello e mi mancherà tanto. Ciao Andrea: non abbiamo più fatto in tempo ad andare a trovare il nostro amico Amid in Riviera e a guardare il mare da sopra Sanremo bevendo rossese, però abbiamo visto la nostra Beneamata vincere di nuovo la Coppa dei Campioni (per noi si chiama ancora così) nell'anno del Triplete. Leveremo un calice in tuo ricordo. A pugno chiuso.

I funerali oggi alle 14,.30 al Crematorio del Cimitero di Lambrate a Milano in Piazza dei Caduti e dispersi in Russia.

Andrea Bellini, ovvero l’epopea degli anni Settanta

Al centro, Andrea bellini, alla sua destra, Marco Philopat, autore del libro "La banda Bellini"

Ricordo di Andrea Bellini e della sua Banda e del Casoretto, della Milano degli anni Settanta. “Cinque file da dieci, volto coperto, “Stalin” in mano, chiave inglese in tasca”


di Claudio Taccioli

Il Casoretto è un quartiere della periferia orientale di Milano.
Popolare per sua natura, abitato com’era, negli anni Sessanta, dagli operai dell’“Innocenti” e delle altre fabbriche milanesi.
Un popolo cresciuto nel mito dell’Unione Sovietica e della Resistenza antifascista. Tenuto saldo nella disciplina del lavoro e delle fedeltà al Sindacato e al Partito.
Un quartiere “comunista” senza tentennamenti.
Crescono nelle narrazioni dell’epica resistente e delle gloriose imprese dell’”Armata Rossa torrente d’acciaio”, anche, Andrea e gli altri ragazzi del quartiere.
L’antifascismo e il comunismo sono il pane e il sogno quotidiani.
Nessun dubbio, solo certezze sulla strada maestra da seguire. Quella della lotta di classe eterodiretta e del lavoro subalterno. Delle campagne elettorali, di quelle del  tesseramento e delle feste popolari per finanziare la burocrazia dirigente.
Cose fatte dai padri e stabilite, come norma comportamentale data, dalle riunioni di circolo e dalla vulgata popolare.

Bellini e gli altri ragazzi del Casoretto, nel percorso predefinito, si ritrovano all’Istituto Tecnico “Einstein”. Quasi un privilegio nella scuola di classe persistente in quegli anni. Una iniziazione  propedeutica e indispensabile alla fabbrica; con un gradino di partenza poco più alto di quello dei padri. D’altra parte, il capitalismo, nel crescente conflitto globale, ha bisogno di quadri qualificati.
Non lo sanno, ma già soffia un vento diverso che arriva dai Campus americani che rimbalzerà, luccicante, nel maggio francese. Per diffondersi ovunque; perfino nel Casoretto. Viene soffiato dalla musica e dalle mode dei “giovani”. Dalle parole ribelli dei cattivi maestri: Marcuse, Sartre, Don Milani, il Che, fra gli altri.
E il Sessantotto arriva nelle carne, nel sangue, nei sogni nuovi dei ragazzi e delle ragazze.
Prima, fu il sesso liberato dalle convenzioni e dalle paure. Il desiderio, finalmente, soddisfatto senza artifici. Fino alle sperimentazioni più ardite.
Dopo, i viaggi in centro alla metropoli; dove la storia correva nei cortei usciti dalla Statale. A incontrare il volto truce dello Stato. A prendere coscienza diretta della violenza del potere contro ogni umanità subalterna in movimento.
All’inizio solo come gregari, ma, presto, come protagonisti diretti e liberati e autonomi nelle proprie scelte collettive.

Le ragioni della rivolta di Bellini e degli altri ragazzi del Casoretto sono precise e ribelli, anche, nei confronti del discorso di vita dei padri e dei nonni.
“volevamo vivere, stare meglio: mangiare, bere, scopare di più (…) essere liberi più di prima”.
Guardano negli occhi i padri e le madri e i nonni sopravvissuti e dichiarano, con scandalo felice, il loro rifiuto alla vita predestinata. Non attraverso un percorso privato, individuale, egoista; ma nella scelta collettiva resistente e ribelle senza compromessi, dove la lotta libera tutti!
“nessuno voleva la fabbrica di riferimento (…) nessuno voleva entrare all’Innocenti. (…) se il comunismo è andare in fabbrica a lavorare, io non sono comunista!”.

Andrea e Gianfranco Bellini, il Bongo, il Franza,  il Morandi, Castelli il Rosso, Jack, Ettore, Walter, Papo Beccandus, Carletto lo Sponta, Brazz il Matto, Elvezio, la Frinkia, Annarita, la Betty, sono, in realtà, così comunisti che non sopportano le vecchie discipline organizzative. Fatte di capi e di gregari obbedienti. Di punizioni per i disobbedienti e di  privilegi per i mediocri.
Si sentono liberi nelle idee, nell’agire, nei corpi e si battono direttamente senza condizionamenti, comandi, discipline gerarchiche.
La loro ansia è partecipare senza mediazioni e compromessi al cambiamento, alla lotta corpo a corpo con il capitale e il suo Stato.
Cercano e trovano gli spazi dell’organizzazione autonoma. Costruiscono il loro pezzo di corteo strutturato sulla voglia di essere protagonisti in ogni occasione. Capaci di valorizzare e di  dare importanza a ciascuno. Sia collocato nella prima o nella quinta fila dello spezzone “Casoretto” del corteo: “CINQUE FILE DA DIECI. VOLTO COPERTO, STALIN IN MANO, CHIAVE INGLESE IN TASCA”.

Quei cortei che divengono la prosecuzione delle assemblee, delle riunioni, delle letture, delle discussioni, fatte con altri mezzi. Dove i corpi e le coscienze si mettono davvero in gioco; quando arrivano le cariche brutali dei nemici, servi di Stato. Precedute dal buio fitto dei lacrimogeni; sparati ad altezza d’uomo. Come nel primo anniversario della strage di stato: il 12 dicembre 1970. Quando 300 anarchici corrono, fino alla Statale, inseguiti dai carabinieri inferociti.
I “katanga”, dopo una prima resistenza, si chiudono nell’università e i ragazzi del Casoretto restano fuori a dare protezione.
Uno schianto duro e secco e, a pochi metri, cade, col cuore spaccato da un candelotto il giovane Saverio Saltarelli.
La “Banda Bellini” capisce che quello è il tempo degli assassini: non solo della loro giovinezza liberata.
Muoiono gli innocenti nelle stragi fasciste e di Stato; ammazzati lungo i cortei dalla più feroce sbirraglia esistente; colpiti negli agguati dai sicari fascisti allevati alla morte.

La Banda ha ben chiaro quali sono i nemici: fascisti e sbirri vari. Senza dimenticare le varie facce grottesche e feroci dello stalinismo: il partito, il sindacato. I famigerati Katanga “il servizio d’ordine più odioso mai esistito”. Creato, all’inizio, come difesa dei cortei; divenuto, subito, lo strumento di affermazione dell’egemonia del Movimento Studentesco (MS), poi Movimento dei Lavoratori per il Socialismo (MLS), su ogni altra organizzazione della sinistra estrema. Capace di punire, con crudeltà reiterata, chiunque si fosse messo in testa di discutere le sue affermate posizioni di potenza.
BANDA è il nome spregiativo che proprio gli statalini danno a quelli del Casoretto. Come fa sempre il potere per designare e sminuire gli avversari che si azzardano sul territorio proprio. Banditi erano i partigiani e i contadini del Sud in rivolta. Banditi sempre i ribelli e il collettivo del Casoretto porterà con orgoglio questo nome.

La banda Bellini si distinguerà in ogni corpo a corpo durante gli assalti delle forze dell’ordine ai cortei. Senza calcoli di parte, solo per difendere chi cercava salvezza e tregua. Lo farà con coraggio e determinazione in una vera e propria epica di nuova resistenza. Nei confronti, pure, delle chiusure “democratiche” del Sindacato e del Partito della classe operaia.
Fra un orgasmo e una bevuta collettiva e la ricerca di quell’amore indispensabile.

Corrono via i Settanta, duri e meravigliosi, quali furono.
Nel lungo prodigioso Sessantotto italiano, fino all’ultimo disperato giorno che segnò la fine di un ciclo. Quando, pur cosciente della situazione, Andrea accompagnò, per l’ultima volta,  i più giovani del Casoretto nel centro di Milano, il 14 maggio 1977.
La lunga camminata nel tunnel di silenzio della città rinchiusa e impaurita. Le sparatorie in bella mostra e la morte e la rabbia disperata. Per la certezza che tutto stava finendo in quel baratro di sangue senza orizzonti.
“ … ho sentito la puzza di morte. Una lunga e lenta agonia! (…) stavamo diventando la federazione giovanile dei gruppi armati!”

Dopo, solo la paura e il nemico nuovo che si chiamava isolamento, e fuga nell’eroina. Dove morivano i compagni, si bruciavano le speranze.
La galera e la necessità di andare avanti perché la “fine spaventosa” non era arrivata; ma neppure lo “spavento senza fine” si faceva avanti.

Ti abbiamo visto, ancora, Andrea a ricordare e raccontare. A pugno chiuso contro qualche tipo di sopraffazione; nelle strade e nelle piazze disoccupate dai sogni. Da riempire di rabbia.
Ti abbiamo ascoltato e voluto bene fino all’ultimo.

Quello che sei stato, quello che siamo stati. Quello che saremo nelle idee non deluse e caparbie, nessun’altra storia e volontà potrà portarceli via.
La camminata verso Mapache, a cinque file da dieci, non è finita ancora, bastardi!
“let’s go”
“why not?”

ANDREA BELLINI è morto il 26 dicembre, aveva 65 anni!

“BRINDO ALLE DONNE CHE NON HO CONOSCIUTO, ALLE BANCHE CHE NON HO ASSALTATO, AI NIPOTI CHE NON HO MAI AVUTO. BRINDO AI COMPAGNI DI UN TEMPO, E ALLE LORO OSSA CHE BIANCHEGGIANO AL SOLE …”

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