mercoledì 31 agosto 2016

Escobar

"Escobar" (Escobar: Paradise Lost) di Andrea Di Stefano. Con Benicio del Toro, Josh Hutcherson, Claudia Traisac, Brady Corbet, Carlos Bardem. Francia, Spagna, Belgio 2014 ★★★★-
Esce in Italia con due anni di ritardo il film d'esordio alla regìa di Andrea Di Stefano, attore e sceneggiatore romano, e non si capisce perché trattandosi di un nostro connazionale e di un film più che discreto che ha avuto un buon successo all'estero, in un genere, quello del thriller d'azione (ma anche biografico), abbastanza inconsueto dalle nostre parti. Con molti elementi tratti da fatti reali, Di Stefano ha approntato una sceneggiatura robusta e calibrata apposta  per le larghe spalle di Benicio del Toro che, dopo aver interpretato da par suo Che Guevara, si cimenta questa volta con un'altra icona latinoamericana, dando volto e corpo alla figura controversa di Pablo Escobar Gavíria, reputato il più grande e pericoloso narcotrafficante di tutti i tempi ma altresì amato da buona parte dei colombiani per la sua vicinanza al popolo e gli investimenti in opere sociali e caritatevoli. La vicenda inizia col sogno di Nick, un ragazzo canadese che, assieme al fratello Dylan scopre sulla costa pacifica colombiana un angolo di paradiso (come da titolo originale), di allestire una piccola scuola di surf, ma i due incappano in un gruppo di locali che pretendono di estorcere loro un pizzo per avviare l'attività. I ragazzi rifiutano e nel frattempo Nick conosce Maria, la nipote più amata di Pablo Escobar che a sua volta lavora alla costruzione di un ospedale finanziato dallo zio:; i due si innamorano perdutamente, si fidanzano e Nick viene presentato allo zio che lo prende in simpatia, lo assume per lavorare nella propria hacienda e lo considera come un figlio. Quello che Nick non sa, e preferisce non sapere, è che i sicari di Escobar hanno eliminato il gruppo di banditelli locali che avevano infastidito lui e il fratello nell'attività che intendevano mettere in piedi. Siamo nel periodo, all'inizio degli anni Novanta, in cui Escobar diventa di fatto il padrone della Colombia, tanto onnipotente da far assassinare anche il ministro della Giustizia: ricercato per ogni dove, instaura una trattativa col governo e decide di consegnarsi. Poco prima di farlo, decide di nascondere in vari bunker predisposti in grotte di cui ha acquisito la proprietà il suo immenso patrimonio, e in questa operazione impiega soltanto persone di cui ha una fiducia cieca, tra cui Nick. La paranoia del personaggio, convinto di lavorare esclusivamente per il bene e la sicurezza della sua famiglia e della comunità, è tale che decide di eliminare anche buona parte della cerchia dei suoi più stretti collaboratori, tra cui lo stessoNick. Che a sua volta non è il personaggio angelico che pensa di essere, perché ha differenza del fratello Dylan era ben cosciente chi fosse il "patrón" a cui aveva giurato fedeltà. Non scendo nei dettagli, ma la storia finisce con una matanza che si svolge appena prima che Escopbar si consegni alla polizia, in un campo di calcio e acclamato dalla folla a Medellín, la sua città (e quella del relativo "cartello" tristemente famoso). Ben girato, il thriller si avvolge, tra flash back e forward, in un crescendo mozzafiato capace di coinvolgere lo spettatore. Ambientazione perfetta, magistrale interpretazione di Del Toro e degna di nota anche l'esordiente Claudia Treisac nella parte della nipote María, mentre Josh Hutcherson ha l'espressività e la personalità di una scamorza, e del resto anche il suo personaggio, un gringo troppo stupido e culturalmente ipodotato per capire dove si trova, è un nano di fronte a Escobar, e così  questo coglioncello reduce, mi dicono, dalla serie Hunger Games, rispetto all'attore portoricano. Un esordio notevole: mi auguro presto un bis da parte di Di Stefano.

lunedì 29 agosto 2016

Torno da mia madre

"Torno da mia madre" (Retour chez ma mère) di Eric Lavaine. Con Josiane Balasko, Aleksandra Lamy, Mathilde Seigner, Philippe Lefebvre, Jerôme Commandeur, Cécile Rebboah, Didier Flamand. Francia 2016 ★★½
Film d'intrattenimento ideale per un afoso pomeriggio estivo, con tutti i pregi e difetti della commedia transalpina: molto parlato, con una sceneggiatura poco equilibrata e dispersiva, l'impianto essenzialmente teatrale esalta le doti di una caratterista fenomenale come Josiane Balasko, antica sodale dell'indimenticato Coluche e di Miou Miou, formatasi, per l'appunto, sulla dure tavole del palcoscenico, ma "cade" nella coprotagonista, Aleksandra Lamy che, messa a duellare dialetticamente e con la mimica con un'attrice di tale presenza e intensità, finisce per fare la figura della mozzarella insipida ben più di quanto richieda il suo personaggio: un'architetta quarantenne che, persi marito e lavoro, quest'ultimo per totale superficialità e insipienza, torna all'ovile, ossia a vivere a casa della madre, in quel di Aix-en-Provence, almeno fino a quando non ha risolto i suoi problemi economici più pressanti (ci penserà la madre usando cervello e astuzia, pur di levarsela di torno). Da un lato il film affronta, almeno inizialmente, il tema della difficoltà di reinserimento nel mondo del lavoro di chi l'ha perso, la crisi economica in corso ma altresì le incongruenze e ineguatezze di parte della generazione "pre-millennial", né carne né pesce, ma il fulcro sta nel rapporto di Stephanie con la madre, per l'appunto una volitiva, smaliziata e "ingombrante" Josiane Balasko, la cui esistenza, vissuta finalmente a sua misura dopo essere rimasta vedova, viene di fatto stravolta dall'inopinata presenza di questa figlia inconcludente e fondamentalmente stupida, incline a credere che gli "strani" comportamenti della genitrice siano da attribuire a un Alzheimer incipiente e non al suo desiderio di gestire le proprie faccende in totale autonomia, anche perché lei sa cavarsela e Stephanie, a tutta evidenza, no. Al rapporto madre-figlia si aggiunge quello con la sorella "stronza", una brava Mathilde Seigner, e il fratello vacuo e vanesio, fatto di gelosie, invidie e ripicche meschine: la "vecchia" conosce i suoi polli e li manovra a suo piacimento neutralizzando il loro moralismo ipocrita. Alla fine il verdetto del confronto tra madre e figlia rispecchia quello tra Balasko e la povera Lamy: impietoso; quello fra sorelle e rispettive interpreti, pure; per il resto, tutto carino ma non molto di più.

sabato 27 agosto 2016

Il diritto di uccidere

"Il diritto di uccidere" (Eye in The Sky) di Gavin Hood. Con Helen Mirren, Aaron Paul, Alan Rickman, Barkhad Abdi, Phoebe Fox, Iain Glen e altri. Gran Bretagna 2015 ★★★★½
Non stupisce che questo film scomodo, inquietante, rigoroso, ben fatto e magnificamente interpretato da un cast tutto all'altezza della situazione trovi spazio per uscire, quasi clandestinamente, in questo ultimo scorcio di estate, nelle more delle ultime riproposizioni della scorsa stagione cinematografica e prima che abbia inizio la prossima, per merito di una benemerita casa distribuzione indipendente, la romana Teodora: infatti affronta con estrema efficacia un tema quanto mai attuale e delicato, che non è soltanto, e principalmente, quello del "diritto di uccidere" all'epoca di una guerra asimmetrica generalizzata condotta attraverso i droni, come suggerisce il discutibile titolo scelto per l'edizione italiana, quanto quello della sorveglianza, ossia dell'intrusione, attraverso l'utilizzo delle moderne tecnologia informatiche, come indica correttamente il titolo in inglese, e dell'essere sotto osservazione da parte di chi la pratica. Un colonnello dell'esercito inglese, Catherine Powell, una grandiosa Helen Mirren, grazie all'utilizzo di un drone comandato da una base nel lontano deserto del Nevada, negli USA, ha individuato in un sobborgo di Nairobi, in Kenia, controllato dalle milizie integraliste somale di Al Shabaab, una pericolosa terrorista di cittadinanza britannica convertita al jihad  a cui dà la caccia da anni; con lei altri tre terroristi che sono nella lista nera della Casa Bianca: l'occasione di eliminarli tutti diventa una necessità quando, utilizzando in loco degli altri congegni elettronici  camuffati da insetti-spia, scopre che all'interno della casa dove si trovano i terroristi si sta preparando un attentato per mezzo di due kamikaze dotati di giubbotti esplosivi, ma non solo c'è il problema di condurre un'attacco in un Paese alleato, ma uno dei jihadisti ha pure la cittadinanza americana e, per ultimo, proprio nel momento in cui la militare inglese è riuscita a ottenere tutti i permessi per ordinare ai piloti americani del drone di sganciare il missile letale, appena fuori dall'edificio, e nel raggio d'azione dell'ordigno, compare una bambina keniota che monta una bancarella per vendere delle pagnotte: l'ufficiale statunitense che deve schiacciare il bottone chiede una verifica della valutazione dei danni collaterali e da lì la vicenda prosegue in "tempo reale" e in collegamento diretto tra la sala operativa dove si trova la Powell in Inghilterra, gli uffici di Whitehall dove si tiene una riunione tra il suo superiore, il generale Benson interpretato da Alan Rickman, recentemente scomparso, e i consulenti giuridici e poltiici nonché i membri del governo competenti e infine il bunker della base statunitense. Da lì in poi si mette in atto uno scabroso quanto altamente verosimile gioco di scaricabarile in cui per motivi diversamente validi ciascuno evita di prendere una decisione rinviando sistematicamente all'istanza superiore (ma, talvolta, anche a quella inferiore per scaricarsi la coscienza). Non si tratta solamente di fare una scelta operativa in base a un calcolo percentuale delle probabilità e a una valutazione con tale criterio apparentemente obiettivo del danno collaterale, ma anche, se non soprattutto, in considerazione dell'impatto di quest'ultimo sull'opinione pubblica, da cui a loro volta i protagonisti, così dediti a intrufolarsi con i mezzi più moderni forniti dalla tecnologia nell'intimità altrui, sono a loro volta tenuti sotto osservazione, attraverso alcuni media sempre più attrezzati  che, come dimostrano wikileaks e il caso Snowden, potrebbero sfuggire al controllo e svelare verità e procedure difficili da difendere politicamente ed eticamente. Temi delicati e connessi, proposti in forma di thriller mozzafiato e coinvolgente: ulteriore merito del film è quello di non dare risposte ma di essere da stimolo per riflessioni che non possono lasciare indifferenti il pubblico. Complimenti. 

giovedì 25 agosto 2016

Money Monster - L'altra faccia del denaro

"Money Monster - L'altra faccia del denaro" (Money Monster) di Jodie Foster. Con George Clooney, Julia Roberts, Jack O'Connell, Caitriona Balfe, Dominic West e altri. USA 2016★★★½
Un film che ha qualcosa del "già visto", ma che ha comunque il merito di affrontare in maniera credibile ed efficace, per quanto paradossale e a tratti apparentemente caricaturale, il tema della virtualità e illusorietà di due mondi a stretto contatto, quello dell'informazione spettacolarizzata e quello della finanza. Lee Gates (un Clooney in gran forma e perfetto nel ruolo) è un giornalista-intrattenitore televisivo che commenta l'andamento della borsa e propina "consigli per gli acquisti" in tal senso, un superficiale, sostanzialmente un cialtrone, che si guarda bene dall'analizzare con un minimo di professionalità quel che combinano i gestori dei vari fondi d'investimento che promuove con le sue arti di imbonitore. Un bel giorno, durante il suo programma-show, irrompe nello studio Kyle, un giovane squinternato che, seguendo i suoi suggerimenti, ha perso tutti i suoi risparmi e, sotto la minaccia di una pistola e facendogli indossare un giubbotto imbottito di esplosivo, lo costringe a proseguire la diretta, sotto la guida della sua produttrice Patty Fenn, interpretata da una Julia Roberts particolarmente efficace, e a fornire le spiegazioni di ciò che è accaduto ossia, sostanzialmente, di svolgere per una volta seriamente il proprio lavoro di giornalista: fare domande e scoprire la verità invece di fare il pagliaccio. Lee e soprattutto Patty riescono alla fine a ricostruire i movimenti fraudolenti del finanziere imbroglione e a costringerlo a confessare le sue malefatte, ma Jodie Foster, che è una regista intelligente, fa capire chiaramente che lo fanno soltanto perché minacciati e non certo per vocazione e serietà professionale, perché questo è il giornalismo, oggi, specialmente quello televisivo, negli USA come ovunque: prostituzione intellettuale, come la definiva efficacemente qualcuno di mia conoscenza. Una pellicola d'intrattenimento intelligente, con alcune trovate divertenti, scambi di battute vivaci e taglienti, di buon ritmo e con due star che meritano il cachet, mentre molto meno nella parte è Jack O'Connell nei panni del giovane investitore spennato.  

martedì 23 agosto 2016

In viaggio con me stesso


Due giorni fa, tornando verso casa, in Friuli, dopo una settimana a zonzo per sfuggire alla sagra ferragostana che si celebra annualmente nel borgo in cui abito, in macchina sotto una sequenza di acquazzoni in serie che mi inseguivano da Salisburgo fino a San Daniele, a tratti con caratteristiche monsoniche, riflettevo ancora una volta sul senso di serenità, energia, sicurezza che mi pervade quando sono in viaggio, anche nelle condizioni più avverse. Non che dei temporali estivi siano situazioni estreme e pericolose: ne ho vissute di altre ben più preoccupanti, ma non è comunque gradevole percorrere trecento chilometri facendo aquaplaning, per quanto su una strada che conosco a memoria. Sballottato di qui e di là da scrosci d'acqua a secchiate e folate di vento, tra nuvole così basse da costringermi ad accendere i fendinebbia, mi veniva da sorridere al pensiero di quanto mi fossi sentito bene e a mio agio in tutti i momenti di questa mia breve, ma pur sempre intensa e variegata escursione accuratamente "contromano" proprio nei giorni di massimo "carnaio" dell'anno, quelli che culminano col pranzo famigliare di Ferragosto, magari sotto forma di pic-nic, o con la tradizionale abbuffata di lasagne o frittata di maccheroni in spiaggia. Una rilassante visita amicale di un paio di giorni lungo la Riviera del Brenta; trasferimento a Monaco di Baviera per un affaruzzo, con tanto di allegra serata in compagnia di me stesso, quindi ottima, in un tipico Biergarten; spostamento in Austria facendo la prima Bier-Pause sulla piazza principale di Braunau sull'Inn, la città che dette i natali (quasi per caso, dato che la sua famiglia si trasferì poco dopo a Linz) ad Adolf Hitler, e che ancora ne porta il fardello, come se ne avesse la colpa, e che invece possiede un gradevolissimo centro storico medievale oltre ad essere abitata da persone affabili; poi ospite come sempre in famiglia (al momento, di fatto, composta da un mio cugino di primo grado, mio coetaneo, e dai suoi figli) in un suggestivo villaggio in mezzo ai boschi nel cuore dell'Innviertel; nei quattro giorni successivi, due puntate a Salisburgo, una a trovare una mia cara cugina in trasferta anche lei, ma da Vienna; un'altra da un'amica; ancora un pranzo con un'altra amica d'infanzia; alcune puntate a Mattighofen, dove era nata ed era tornata ad abitare mia madre, e dove ancora ho parenti, amici e conoscenti. Socializzando, quindi, per quanto venga reputato un orso, ma pur sempre muovendomi da solo. Un'attitudine innata, rafforzata dal fatto di essere figlio unico ma non viziato, e dall'indole, che mi hanno indotto fin da piccolo a cavarmela e organizzarmi per conto mio: rimango interdetto quando vedo genitori che portano i figli a scuola fino all'adolescenza inoltrata, magari in macchina, mentre a sei anni ci andavo (e pure buona parte dei miei compagni) da solo a piedi o coi mezzi pubblici e, senz'altro una volta compiuti i dodici, mi spostavo da Milano all'Austria o al Friuli in treno e senza accompagnamento. Fin da allora non ho mai più trascorso una vacanza estiva con i miei (qualche viaggio vero e proprio, di tipo culturale, sì) e dai 14 anni in su ho sempre avuto in tasca la tessera degli ostelli della gioventù (austriaca: me la faceva ogni anno mio nonno materno) e in estate prendevo quella dell'Inter-Rail (fu all'epoca l'equivalente dell'attuale Erasmus, con la differenza che durava un mese per volta e si faceva fra stazioni, treni, autostop strategici e ostelli) come tanti altri della mia generazione, che incontravo in giro per un'Europa che, ancora divisa da confini, avevo già girato in gran parte prima di compiere i 18 anni (età per prendere la patente e fare il servizio militare di leva: maggiorenni lo si diventava a 21) e percepivo come il mio ambiente naturale e, quella del "me in viaggio", la mia dimensione più autentica e in cui mi sentivo più a mio agio. In questo senso, in mezzo secolo non è cambiato nulla, e l'approccio è sempre rimasto lo stesso: il viaggio inteso non tanto come avventura ma come modalità del mio essere, una condizione naturale, che mi dà sicurezza. E che mi riconduce "al punto". Una certezza che non mi ha mai abbandonato, una condizione a cui so di poter fare sempre ritorno, "centrandomi" su me stesso, e a cui sono ricorso quasi in modo terapeutico soprattutto nei momenti decisivi, o di maggiore sbalestramento della mia vita, e non sono stati pochi. In un periodo giovanile in cui soffrivo ricorrentemente di attacchi di panico (esperienza orrenda), allora "a mia insaputa", questi sparivano d'incanto non appena montassi su un mezzo di locomozione che mi portasse altrove da Milano, fosse solo a Genova per vedere il mare: in quel periodo ho battuto a tappeto l'intera penisola iberica e poi il resto dell'Europa che mi mancava, nonché l'Italia, in compagnia e da solo; così ho fatto in tutte le occasioni in cui stavo per esplodere (o implodere), avevo dei dubbi, dovevo fare delle scelte importanti. L'unica volta in cui malauguratamente ho rinunciato è stato prima di sposarmi, e infatti si dimostrò presto un'idea assai infelice: se avessi riflettuto prima sul perché non avessi mai convissuto prima in vita mia con qualcuno, e perfino da bambino soffrivo nell'avere i miei genitori intorno, non sentendomi mai a mio agio nel fare in loro presenza le cose, pur normalissime, che mi piacevano (a cominciare dal leggere, studiare, scrivere, ascoltare musica o suonare), e mi fossi "ascoltato", come mi capita sempre, appunto, quando viaggio, con ogni probabilità non avrei commesso quell'errore. Che si tradusse, cinque anni dopo, in sofferenza, al momento della inevitabile separazione, durante l'annus horribilis che fu per me il 1998, la prima metà del quale segnò, poco dopo, anche la morte di mia madre con quel che ne conseguì. Quest'ultimo avvenimento mi lasciò (amici e parenti a parte) del tutto da solo e ne uscii, guarda caso, ancora una volta viaggiando, su e giù ancora tra Austria e Friuli a sistemare le faccende in sospeso prendendole letteralmente in mano, e con ciò anche un me stesso decisamente strabaltato e fuori fase, e si concluse, ricordo, con due settimane portoghesi, con base a Lisbona (ed era un ritorno) e, successivamente, con un mese in Argentina (altro ritorno, e sempre rigorosamente de per mi). Il che non significa che mi decida a mettermi in movimento soltanto in "stato di necessità", quando sento l'inquietudine salire o vengo preso da dubbi di varia natura: lo faccio anche quando sono particolarmente contento e rilassato, e pure quando sto benissimo a casa mia, dove pure godo, per lo più, della mia beata solitudine a meno che non sia per mia scelta, e l'ho fatto ancora alcuni mesi fa andando in Sudamerica e la settimana scorsa per questo breve giro, e come prevedo di farlo la prossima tornando ancora una volta nella mia amata Dalmazia. Non disprezzo fare le vacanze, e talvolta condividere un viaggio vero e proprio, con qualcuno (che dev'essermi molto caro), ma la pace e pienezza che provo quando viaggio con me stesso è una  sensazione impagabile, di cui continuo a sentire il bisogno per sapere chi sono.

giovedì 18 agosto 2016

SerbidiolA


Ricorre oggi il 186° genetliaco di Franz Joseph I, Imperatore di Austria e Ungheria, famigliarmente chiamato Cecco Beppe nelle terre italofone irredente loro malgrado. Impero per impero, quello almeno era una cosa seria. Auguri, Kaiser e un Prosit: sempre nei nostri cuori e... SerbidiolA!

lunedì 15 agosto 2016

Le ricette della signora Toku

"Le ricette della signora Toku" di Naomi Kawase. Con Kirin Kiki, Masatoshi Nagase, Kyara Uchida, Miyoko Asada, Estuko Ichihara. Giappone 2015 ★★★½
Film triste ma bello": questo il mio commento a caldo alla domanda all'amica, grande appassionata del Sol Levante e appena reduce dalla lettura di "Giorni giapponesi" di Folco Maraini, dopo aver recuperato anche questo "rimasuglio" della passata stagione in una sala pressoché deserta un paio di giorni fa. Regista di successo in patria, Naomi Kawase racconta con delicatezza ed eleganza una storia in realtà assai dura tratta da un best seller locale a cui, pur non avendolo letto, percepisco che dev'essere rimasta assai fedele: Sentaro, un uomo silenzioso e solitario, gestisce una piccola rivendita di dorayaki, un tipico dolce giapponese composto da due dischi di pan cake ripieni di anko, una particolare marmellata di fagioli rossi, senza entusiasmo (si scorprirà in seguito perché obbligato per un antico e pesante debito contratto con il proprietario del locale) e con pochi clienti, soprattutto studentesse di un liceo del quartiere, tra le quali una sola, disadattata pure lei, entra in rapporto con lui fino al giorno in cui a rispondere a un avviso di ricerca di personale temporaneo non si presenta Toku, un'anziana signora che vive in uno stato di particolare e felice sintonia con la natura (la vicenda inizia nella stagione della spettacolare fioritura dei ciliegi, che ha qualcosa di rituale e magico in Giappone), per la quale, avendo avuto un grave problema alle mani, ora quasi deformate, sarebbe un sogno poter preparare di persona la sua marmellata per farcire i dolcetti e magari avere l'onore di servirli, accontentandosi anche di un terzo della paga proposta. Inizialmente controvoglia Sentaro l'assume, anche su sollecitazione della giovane studentessa, ma quando assaggia la salsa anko preparata dalla vecchina si convince della bontà della scelta, entra man mano in confidenza con Toku e il suoi dorayaki cominciano ad andare a ruba. A guastare la festa la moglie del proprietario del negozietto, che lo richiama ai suoi doveri di fedeltà al padrone nonché creditore e, dando ascolto alle voci di persone malevole, gli impone di licenziarla. Toku, che nel frattempo ha intuito tutto, se ne va da sola, in silenzio, lasciando una lettera a Sentaro in cui gli racconta il suo segreto e rivela come, pur non conoscendone i dettagli, ha intuito il suo, pur nascosto dal mutismo di lui. Non rivelo altri dettagli per non pregiudicare la "sorpresa", in realtà in qualche modo intuibile a sua volta. Quel che rimane da dire è che si racconta dell'incontro tra due infelicità, anzi tre comprendendo la ragazza, tutti in qualche modo "ingabbiati" in situazioni che per motivi diversi li discriminano dal prossimo e dalla "normalità": il rapporto di tra Toku e Sentaro ricostituendo quello tra madre e figlio che entrambi non hanno avuto nella realtà, che porta al riscatto di Sentaro, come quello con la giovane, che trova in loro due quell'atmosfera e calore famigliari che non ha con la madre e con le coetanee. Bravi e credibili gli interpreti principali, all'altezza la regìa. 

sabato 13 agosto 2016

The Nice Guys

"The Nice Guys" di Shane Black. Con Russell Crowe, Ryan Gosling, Angourie Rice, Matt Bomer, Margaret Qualley, Kim Basinger e altri. USA 2016 ★★★★
Film spumeggiante, divertente, allegramente confusionario ma non innocuo e con una sua morale: contro i "poteri forti" che si annidano proprio tra chi dovrebbe garantire e difendere il cittadino dai soprusi, e contro chi ha definitivamente deturpato, rendendola ancora più inquinata e invivibile, Los Angeles, una città del tutto artificiale nata in partenza per soddisfare le brame di speculatori di ogni genere: di terreni, di acque, immobiliari in generale. Protagonisti di una vicenda che ha sullo sfondo la figura di Amelia, una giovane attrice porno misteriosamente sempre in fuga, sono due detective che inizialmente si trovano su fronti opposti: uno, Healey, un corpulento irlandese che risolve tutto a cazzottoni, impersonato da Russell Crowe, ingaggiato dalla ragazza per proteggerla; l'altro, March, esile, stranito e imprevedibile, che si rialza ogni volta come un misirizzi, interpretato da Ryan Gosling, incaricato di trovarla: man mano si troveranno dalla stessa parte, a risolvere un caso complicato che vede assassinati via via tutti i personaggi, dagli interpreti al regista al produttore, che ruotano attorno al film porno che vede protagonista Amelia, che si scoprirà essere un'ecologista ante litteram (siamo a metà degli anni Settanta, quando a LA si respira ancora qualche refolo di Flower Power ed echeggia tanta buona musica, altro punto forte della pellicola), film che ne maschera però anche un altro, su cui i "cattivi" vogliono mettere le mani: mi fermo qui per evitare sgradevoli spoiler. La classica "strana coppia" (finiranno per entrare in società che ha per nome il titolo del film: premessa per un sequel?) è fatta apposta per integrarsi a vicenda e, come i loro personaggi, lo stesso capita a Crowe e Gosling, perfettamente complementari, così come lo erano, a livelli diversi, Lemmon e Matthau o Spencer e Hill, e benché il film sia felicemente farsesco, i personaggi risultano assolutamente credibili: a integrare ulteriormente la coppia, e a rappresentare in definitivamente la mente più acuta facendola diventare di fatto un trio, la figlia tredicenne di March, la deliziosa Angourie Rice, cui non fatico a predire una brillante carriera. Curiosamente, nessuno dei tre attori principali è statunitense: Gosling è canadese, Crowe neozelandese e cresciuto in Australia, dov'è nata e cresciuta anche Angourie. Regia briosa, ritmi sincopati, colpi di scena e buon umore assicurato ne fanno un film ideale per l'estate. 

giovedì 11 agosto 2016

Bobi, porta l'osso a papà...


Trovo che "abominevole e ributtante", com'è stata da più parti definita, non sia la vignetta qui sopra, pubblicata in prima pagina sul Fatto Quotidiano di ieri, ma l'ormai insopportabile politicamente corretto a senso unico, il perbenismo peloso del pensiero a una dimensione che domina al giorno d'oggi in Italia ancora più che altrove. Al popolo pidiota le gobbe di Andreotti e la nanità di Berlusconi  andavano benissimo, quando erano all'opposizione (si fa per dire), come ora Virginia Raggi ritratta con le orecchie come spinnaker; le vignette contro Maometto un po' meno, per cui sono diventati sì tutti Charlie, perché al conformismo non si comanda, ma con riserva. Poi, nel Paese con l'informazione più autocensurata e servile dell'area OCSE, godono se il direttore dell'inserto sportivo di un quotidiano, pirla quanto si vuole ma innocuo, viene licenziato dall'editore (un Riffeser-Monti, dunque un noto illuminato) per avere dato delle cicciottelle a delle cicciottelle e vibrano di sdegno per Mannelli che disegna i coscioni di una che li esibisce abitualmente, insieme alle gengive e al tacco 12 d'ordinanza per slanciare una caviglia "diversamente sottile" e mostrare l'unghia del piede laccata attraverso il toe cleavage. Pur di silenziare le bestialità che pronuncia a ripetizione questa pericolosa cretina, si indignano per riflesso pavloviano, e sui sòcial, tra un cinguettio, un "mi piace" e uno "stato", trovano il loro terreno di battaglia ideale, avvalorando la tesi di Umberto Eco che li considerava una palestra per imbecilli: nelle piazze e nelle strade, infatti, non li si vedono infatti mai, neanche per sbaglio, salvo ai Concertoni del Primo Maggio o in occasione delle innocue scampagnate organizzate dalla Grande Ciggielle nella capitale o in altre località amene (mai a Taranto, Gioia Tauro, Marghera o Sestri Ponente anziché Monfalcone). Ipocriti e manipolatori come da tradizione conformista-leninista: la Santa Boschi, Mariele per gli amici pidioti, la portano in giro per la Penisola come la Madonna Pellegrina a sostegno del al referendum costituzionale, proprio con l'intenzione di sfruttare, imbonendo il popolo bue che li vota e accorre festante, il presunto sex appeal che, secondo loro, emanerebbe da questa ragazzotta dal volto equino e l'espressione dell'oca giuliva, il che la dice lunga sul senso estetico dei figli del compromesso storico, bigotti come il piccì e la diccì di cui sono il risultato. Coi sòcial si ripete puntualmente quanto accaduto nella seconda metà degli Anni 70 col rock: da buoni ultimi, quando il periodo d'oro era agli sgoccioli, si sono accorti che era quello linguaggio che i "gggiovani" del tempo parlavano e capivano e che musicalmente non esistevano solo Paolo Pietrangeli, Ivan Della Mea, Giovanna Marini e Franco Trincale, oltre, va da sé, al coro della Gloriosa Armata Rossa, buttandocisi a pesce (morto). Come tutti i neofiti, sono diventati bulimici e hanno preteso di appropriarsene, a modo loro, e di fare la lezione agli altri. Lo stesso è successo, per rimanere in tema, con la satira: ricordo per chi non ne ha contezza, o possiede scarsa memoria, che Cuore, il mitizzato "settimanale di resistenza umana" con cui tuttora menano il torrone, nacque, sulle ceneri di Tango (1986/89, direttore Sergio Staino, il "papà di Bobo" e di tutti i Bobi, fedeli cani da riporto), nel 1989, l'anno della caduta del Muro, come inserto de l'Unità, su iniziativa di Michele Serra, oggi sdraiato su posizioni scalfariane e governative, quasi quanto Staino, mentre Il Male di Pino Zac, Vincino e Vauro, che come da programma faceva male per davvero e non guardava in faccia nessuno, ché la satira non addomesticata è così, mica roba da Bobi, apparve nel 1977, anno altrimenti significativo per questo Paese, ossia ben 12 anni prima. Idem con la scoperta del mercato e quindi dell'Ammeriga: non appena saliti al potere, sono diventati più realisti del re, più liberisti della Thatcher e più guerrafondai dei Clinton (e infatti fu D'Alema a far bombardare la Serbia nel 1999). Insomma: tutto questo buonismo d'accatto e politcally correct non solo mi fa venire il voltastomaco e voglia di dare ragione a Clint Eastwood, ma la sua versione renziana e comunistiana, dopo avermi fatto rivalutare Tremonti, comincia a farmi rimpiangere perfino il Berlusconi dei tempi migliori. Per chiudere ancora più scorrettamente però sinceramente: ma non vi inquieta il sospetto, osservando con attenzione i tratti, il modo di esprimersi e di muoversi del nostro presidente del Consiglio, che da ormai due anni e mezzo potremmo essere governati da un minorato con qualche traccia di mongolismo? 

martedì 9 agosto 2016

Un ultimo tango

"Un ultimo tango" (Un tango más) di German Kral. Con Juan Carlos Copes, María Nieves Rego, Alejandra Gutty, Ayelén Álvarez Miño, Juan Malizia, Pancho Martínez Pey, Pablo Verón, Johana Copes. Argentina, Germania 2015 ★★★★★
Sempre grazie alle rassegne estive che ripropongono, per chi se le fosse perse, le migliori chicche della stagione cinematografica appena trascorsa, eccone ripescata una da intenditori per chi ama il tango in sé, ma anche le storie di amori contrastati e di miserie e redenzioni che ne sono l'anima, incarnate nel racconto, per bocca dei suoi protagonisti, di una vicenda vera: il rapporto professionale, ma anche umano, tra Juan Carlos Copes e María Nieves Rego, la coppia di tangueros forse più famosa d'Argentina, unita sul palco da un sodalizio durato quasi cinquant'anni e per un primo periodo anche nella vita fuori dal palcoscenico, e comunque dalla passione per quel "pensiero triste che si balla", come lo definì non Borges, come insistono a dire i nesci, ma Enrique Santos Discépolo, probabilmente il più grande poeta del tango e, in ogni caso, il mio preferito. In un misto di documentario, musical, biopic con personaggi tuttora viventi, questa coproduzione argentino-tedesca, meritoriamente guidata da Wim Wenders e con la valida regìa di German Kral, si incentra in particolare sulla figura di Maria Nieves Rego, classe 1934 che, sigaretta sempre alla mano, ripercorre la sua storia dal primo incontro con il giovane Juan Carols Copes in una milonga di Palermo Viejo, l'Estrella de Maldonado, uno dei Clubes de Barrio diffusi ancor oggi nelle varie municipalità di Buenos Aires, che negli anni Quaranta e Cinquanta vissero il loro periodo d'oro, all'immediata sintonia, come ballerini e come amanti, al perfezionamento e agli esordi fino alla formazione, sotto la direzione di Copes, anche scenografo, di una compagnia di giovani che furoreggiò prima in patria e poi anche negli USA (Broadway) e in giro per l'Europa negli anni Ottanta sotto la direzione artistica di Astor Piazzolla nello spettacolo Tango Argentino (ebbi occasione di vederli dal vivo sia a Milano sia a Buenos Aires). Alla versione di María (che negando la sua gelosia la conferma ancor di più dando del donnaiolo inaffidabile al compagno: vale più che mai il verso "y es tan fuerte mi odio come fue mi amor", di Rencor, scritta da Julio Sosa e resa immortale da Caros Gardel, che racchiude in sé l'essenza del tango) fanno da contrappunto alcune precisazioni di Juan Carlos Copes, che pure la sposò, a Las Vegas, probabilmente con l'intento di farla stare buona, con una cerimonia "altrimenti valida", il quale la definisce tanto insuperabile come partner artistica quanto insopportabile in privato; si rese però imperdonabile quando, nel 1996, dopo una tournée mondiale di enorme successo, le dette il benservito dalla compagnia senza nemmeno guardarla negli occhi facendo cadere María in una profonda depressione da cui la donna, nata in povertà e cresciuta tra mille difficoltà, una vera combattente, riemerse quando si rese conto di quanto il pubblico l'amasse e apprezzasse di per sé, a prescindere dal partner di sempre, fino al reincontro sul palco, immortalato nel film, col cobarde traidor Juan Carlos. Una storia da conoscere, un film ben fatto, suggestivo, con inserti d'epoca e altri ricostruiti in studio, con ballerini tra cui spiccano Ayelen Álvarez Miño, che interpreta María Nieves da giovane, e l'intensa Alejandra Gutty, una stella di prima grandezza nell'universo tanguero moderno, che la impersona nei momenti di massimo fulgore. Vivamente consigliato.

sabato 6 agosto 2016

Il club

"Il Club" (El Club) di Pablo Larraín. Con Alfredo Castro, Roberto Farías, Antonia Zegers, Alejandro Goic, Francisco Reyes, Alejandro Sieveking, José Soza, Jaime Vadell, Marcelo Alonso. Cile 2015 ★★★★★
Grazie ai "ripescaggi" estivi, ho evitato di perdermi una delle migliori pellicole dell'intera stagione, presentata l'anno passato alla Berlinale, dove ha conquistato l'Orso d'Argento e il Gran Premio della Giuria: avrebbe meritato di più. Un film denso, pieno di significato, per nulla facile, che mette di fronte al male e per farlo non ha bisogno di scene eclatanti: il male, la violenza, il degrado morale stanno tutti negli sguardi, nelle movenze e nelle parole di quattro preti che, allontanati dalle loro funzioni, sono stati relegati dalla Chiesa in una casa dove vivono isolati, affidati alle cure di una suora, in un paesino perso chissà dove sulla costa del Pacifico in Cile. Segregati; non giudicati ché il giudizio, nella visione cristiana, e cattolica in particolare, spetta a Colui in cui il credente ha fede, ma non si sa se esista. Esistono invece i comportamenti reiterati dei quattro sacerdoti, che vanno dalla pederastia, alla tratta di esseri umani alla complicità col regime golpista, che sarebbero stati dei crimini gravissimi se non avessero vestito l'abito talare. La loro esistenza tranquilla, trascorsa tra l'orto, la preghiera, il reality in TV, l'allevamento di un levriero da corsa con cui rimpinguano le loro casse, anche se maneggiare denaro sarebbe loro interdetto, viene sconvolta dall'arrivo di un nuovo inquilino, pedofilo indefesso, accompagnato però dalla sua nemesi, di nome Sandokan, di cui aveva abusato fin dall'infanzia, un uomo affetto da turbe psichiche che si aggira nel paese e intorno alla casa-rifugio da un lato, innocentemente, snocciolando tutti i fatti che gli sono capitati, e che dall'altro non riesce a stare lontano dai preti e vorrebbe essere accolto nel "Club" assieme al nuovo arrivato, il quale non regge la situazione e preferisce suicidarsi, con una pistola fornita dall'ex cappellano del regime militare. A indagare giunge un giovane sacerdote, un gesuita rigoroso quanto sottile e intelligente, che sarebbe intenzionato a chiudere la "casa" e fare in modo che i quattro si rendessero almeno conto delle loro colpe, ma si trova di fronte a un muro di omertà fino a quando uno dei quattro, apparentemente in preda all'Alzheimer, non si lascia scappare una traccia attraverso la quale il gesuita ricostruisce i fatti: in effetti si è trattato di un suicidio ma, attraverso Sandokan, riesce a inchiodare tutti e quattro alle loro responsabilità: sarà la vittima stessa a diventare il mezzo per la punizione dei loro comportamenti peccaminosi o criminosi a seconda dei punti di vista. Non ancora quarantenne, Larraín, regista e sceneggiatore cileno, che qui oltre all'immancabile, nei suoi film, Alfredo Castro, un colosso, presenta anche la moglie Antonia Zegers nei panni della suora-governante, si conferma come uno dei miglior talenti in circolazione e questo è forse il suo film migliore finora, dopo Tony Manero, Post Mortem e No - I giorni dell'arcobaleno (il suo primo film, Fuga, non è uscito in Italia), un crescendo nella continuità. In soli 98' Larraín è riuscito a concentrare materiale di riflessione, qualità e intensità come forse solo nella migliore produzione russa (di cui sono richiamati anche alcuni aspetti estetici), ma in modo assai meno prolisso. Un film importante che sarebbe un delitto perdere.

martedì 2 agosto 2016

Ma Ma - Tutto andrà bene

"Ma Ma - Tutto andrà bene" (Ma ma) di Julio Medem. Con Penélope Cruz, Luis Tosar, Asier Elxeandía, Teo Planell, Alex Brendemühl, Silvia Abascal e altri. Spagna 2015 
Un film pessimo: girato male, recitato peggio, assolutamente inverosimile, e questo è imperdonabile perché l'intenzione, almeno all'apparenza, era buona: parlare di una malattia che colpisce milioni di donne, il cancro al seno, e delle sue conseguenze psicologiche anche nel caso di guarigione, che non è quello che vede protagonista Magda, il personaggio su cui si incentra la storia, interpretato da Penélope Cruz, qui anche in veste di produttrice. Una donna che catalizza sfighe che si abbattono su di lei a raffica e contemporaneamente nel giro di non più di due giorni: la scoperta del tumore proprio mentre ha perso il lavoro di insegnante, è stata mollata dal marito, compie il ciclo di chemioterapia che precede la mastectomia, l'incontro con Alfonso, osservatore del Real Madrid che a sua volta viene raggiunto dalla notizia della morte della figlia e dello stato comatoso della moglie, investite da un'auto, mentre stanno assistendo a una partita di calcio giovanile in cui brilla il giovane talento di Dani, il figlio di Magda. La quale non molla, assistita da un ginecologo canterino che a sua volta si sta separando dalla moglie nonostante sia in attesa di adozione di una bimba siberiana. Che non arriverà mai: ci penserà Magda a produrre un miracolo, ossia a scodellare una sorellina a Dani e un'altra figlia ad Alfonso e che si chiamerà Natascia come l'adottanda russa, Una Magda che non si arrende nemmeno davanti alla diagnosi nefasta di un tumore incurabile al seno rimastole fino a sopravvivere al termine dei sei mesi concessile dal medico,,e che diventano più di nove dalla sgangherata sceneggiatura di questo cialtronesco feuilleton, e a partorire in punto di morte dopo una gravidanza cercata e poi condotta in splendida forma e il sorriso sulle labbra. Ossia: credibilità zero. Non che le tègole non capitino tutte insieme nella vita reale, né mancano donne che affrontano le avversità con tenacia e pure con ottimismo anche davanti alle prospettive più nere, ma assistendo a questa farsa con aspetti da mélo di quarta categoria la sensazione è quella di una presa per il culo quando non di una manovra per manipolare i sentimenti un tanto al chilo. Ci mancavano le marchette alla Nokia col messaggio video a futura memoria alla figlia nascitura registrato sul cellulare e al Real Madrid, una delle società di calcio meno specchiate al mondo, conosciuta come la Juventus d'Europa per la sistematica corruzione degli arbitri, una bella lisciata alla cattolicità e pure il riferimento alla crisi economica che miete posti di lavoro in Spagna e nel resto dell'Europa meridionale specie tra i giovani, peccato che la "povera" e precaria Magda si muova da una zona residenziale a una ancora più esclusiva e sia circondata da libri e begli oggetti e ogni anno vada in vacanza al mare. Insomma una mistificazione e una delle pellicole più inguardabili e irritanti di tutta la stagione.