venerdì 13 maggio 2016

Su e giù per Quito

Vista di Quito dal Volcán Pichincha
Il primo incontro col Mariscal Antonio José de Sucre è avvenuto lunedì sera all’aeroporto internazionale di Quito, a 37 chilometri dal centro, intitolato a suo nome: era uno dei migliori ufficiali di Simón Bolívar quando, il 24 maggio del 1822, al comando delle truppe insurrezionali sconfisse definitivamente sulle pendici del Pichincha, il vulcano che sovrasta la città, le truppe realiste spagnole che avevano cercato di rintuzzare l’indipendenza che era stata proclamata a Guayaquil il 9 ottobre di due anni prima, diventando così il padre della patria un po’ come il Generale José de San Martín quello dell’Argentina. Il secondo, arrivato nel centro storico della capitale, che subito mi è apparsa come una specie di multicolore presepe illuminato, dato che l’albergo che avevo scelto si trova, manco a farlo apposta, all’incrocio tra le calles Sucre e Flores. Il terzo nella cattedrale, dove si trova il mausoleo a lui dedicato. A questo punto non poteva mancare una scappata alla Casa de Sucre, la sua dimora trasformata in un piccolo e prezioso museo mentre non ho più reperito i sucre che, fino al settembre del 2000, erano la valuta ecuadoriana, sostituiti da allora dal dollaro USA contro la volontà popolare. Basti dire che la gente fu costretta a convertire i propri risparmi a un cambio di 25.000 a uno mentre solo l’anno prima era di 6000 a uno (vi ricorda qualcosa?): una rapina legalizzata, fatta apposta per “sistemare” contabilmente le finanze in modo tale da potere indebitare ancor più massicciamente il Paese con l’FMI per i consueti piani di sviluppo realizzati da compagnie prevalentemente nordamericane in cambio, va da sé, delle immancabili “riforme strutturali” telecomandate dagli USA che, al di là delle apparenze, non hanno mai smesso, anche con Obama, di considerare l’America Latina il cortile di casa quando non la loro discarica. Risultato della criminosa trovata, tre presidenti sostituiti nell’arco di otto anni per avere fatto, metodicamente, il contrario di ciò per cui erano stati eletti, ossia asservire ulteriormente il Paese agli USA: per fortuna dell’Ecuador, alla fine di una giostra che può ricordare quella che avvenne in grande stile nel convulso 2001 in Argentina, il presidente Palacio, entrato in carica nel 2005, ha impresso una svolta sociale all’economia affidandone le cure al giovane ministro delle Finanze Rafael Correa, che ha preso drastici provvedimenti per socializzare i profitti derivanti dall’estrazione del petrolio nel NordEst Paese (tra cui i 18 miliardi di dollari di danni che la Chevron è stata condannata a pagare nel 2011 per i danni ambientali causati dall’attività della Texaco, mettendosi ancor di più in conflitto con l’Amico Americano) e che è divenuto a sua volta presidente nel 2006, tuttora in carica: a mio parere un uomo di stoffa completamente diversa dal Maduro del vicino Venezuela, dalla sciagurata argentina Cristina de Fernández Kirchner e dalla stessa brasiliana Dilma Rousseff, per quanto i todopoderosos della finanza internazionale tentino di associarlo ai cosiddetti leader populisti sudamericani sfuggiti al loro controllo e invariabilmente sputtanati perché coinvolti in reti di corruzione. Correa ha già detto che quando le condizioni dell’economia lo consentiranno, intende tornare alla moneta nazionale a meno di non introdurre perfino una moneta digitale nuova di zecca (si fa per dire). Oltre ai sucre, paiono scomparsi dalla circolazione i gatti, e dev’essere una circostanza comune da queste parti, di cui non avevo memoria quando ci ero venuto in precedenza: come già avevo notato a Bogotá, che pare invasa da cani e ciclisti, mentre qui di biciclettari e cinofili ne circolano molti di meno anche in considerazione degli incessanti e ripidi saliscendi e del traffico furibondo delle ore di punta, mancano completamente all’appello i miei amati felini: una tassista a cui ieri ho  chiesto il motivo del fenomeno, ha negato e  ribattuto di averne tre in casa, ma potrebbe trattarsi della classica eccezione che conferma la regola. A prescindere da queste considerazioni, Quito è una città  notevole e il suo centro storico coloniale, uno tra i più estesi e integri di quelle latinoamericane, è stato inserito nel suo complesso a ragion veduta nella lista dei patrimoni dell’umanità protetti dall’UNESCO. Con la differenza, rispetto ad altri, di essere vivo e abitato dagli indigeni e non una reliquia ad uso turistico. A dimostrarlo, il fatto che a partire dalle 18 si svuota e dopo le 20, a parte Calle de la Ronda, da sempre epicentro della bohème quiteña, è rarissimo trovare dei locali aperti, per il semplice fatto che gli andini sono mattinieri e tendono ad andare a dormire col calar delle tenebre e alzarsi all’alba (essendo per l’appunto sulla linea dell’Equatore rispettivamente attorno alle 18 e alle 6), a differenza di quanto avviene nei quartieri della Città Nuova come La Mariscal o Floresta, abitati dalle classi più abbienti (e man mano più chiare di carnagione, guarda caso) e americaneggianti, regni di grattacieli in vetrocemento e dei consueti non luoghi globalizzati. 

Catedral Primata e, a sinistra, il Palacio Presidencial

Cuore di Quito, che conta oltre due milioni e duecentomila abitanti (mentre la città più popolosa nonché progressista del Paese rimane Guayaquil, sulla costa), al centro del reticolato di calles che l’attraversano da Nord a Sud e da Est a Ovest, ma pressoché mai in piano, Plaza Independencia, dove si fronteggiano il palazzo presidenziale e l’alcaldía (municipio) e a loro volta la Catedral Primata e il palazzo arcivescovile, i due poteri nazionali e cittadini di maggior rilievo. A dispetto di cotanta e preoccupante concentrazione di autorità nello spazio di una piazza peraltro di dimensioni contenute, dato che a farle da lato sono soltanto i palazzi suelencati, quest’ultima, piena di verde, è frequentata dalle persone più comuni senza alcuna particolare riverenza nei confronti delle autorità. Quito, fondata il 6 dicembre del 1534 dal luogotenente spagnolo Sebastián de Benalcázar sulle ceneri di una preesistente città inca, fatta radere al suolo da uno dei generali di Atahualpa per evitare che finisse in mano agli invasori, fu presto popolata da coloni e ordini religiosi di ogni tipo invasati dalla fregola di convertire i nativi, sfruttandone biecamente la manodopera per erigere una quantità di chiese e conventi ricchissimi di opere di gran pregio che possiamo ammirare tutt’oggi, in particolare quelle frutto del barocco quiteño indirizzato, con le sue drammatizzazioni, proprio a colpire l’immaginario dei nativi per carpirne l’adesione al cattolicesimo controriformista. 

Convento e chiesa di San Francisco

Fra questi, gli splendidi complessi architettonici dei conventi di San Francisco, San Agustín, Carmen Alto, Santa Clara, San Domingo, San Diego, oggi in parte musei e  con annesse chiese, fra cui emerge, tanto per cambiare, quella “De la Compañia”. Intendendosi ovviamente quella di Gesù, dove in un delirio di stucchi dorati, statue di Cristi sanguinanti, colonne e putti  che ne ricoprono completamente l’interno (ma anche l’esterno non si distingue per sobrietà) trionfa il barocco più forsennato, che trova eguali forse soltanto a Salvador da Bahía, in Brasile. Immancabile la visita alla Basilica del Voto Nacional, in cima a una delle colline più alte su cui sorge la città (i sette colli di Roma fanno ridere al confronto: la media di altura della città si assesta sui 2860 metri) dalla cui torre dell’orologio, raggiungibile dal tetto della chiesa attraverso strette, ripidissime e inquietanti scale di ferro, fortunatamente dotate di corrimano (ammetto di essere salito soltanto al primo dei tre papabili livelli), si gode di una vista a 360 gradi sulla città vecchia e parte di quella nuova, con una prospettiva ovviamente diversa da quella che si ha raggiungendo col Teleferico i miradores situati a 4100 metri sulle pendici del Pichincha, la cui sommità, a sua volta, si trova a circa 4800 metri. Altra vista spettacolare sul centro storico si ha dal Panechillo, la collina a forma di pagnotta sulle cui pendici si trova il complesso del convento di San Diego e in cima una gigantesca incombente Madonna alata, unica nel suo genere, visibile da ogni angolo della città vecchia. Tra i musei, alcuni dei quali come detto si trovano nei conventi mentre altri sono “laici”, segnalo la Casa del Alabado, dotato di un’imponente collezione di manufatti precolombiani esposti con un allestimento originale, per aree tematiche invece che in base al tradizionale criterio cronologico. Oltre alla piacevolezza di andare a zonzo per le strade di Quito, scoprendo mercatini, negozi curiosi, intere vie dedicate a una particolare attività, cibarsi nei comedores tradizionali (tipica la colazione del mattino con seco de chivo, uno stufato di capra accompagnato dall’immancabile riso, da una patata e da mezzo avocado: sono pressoché assenti, almeno nel centro storico, le grandi catene internazionali a parte un KFC, opportunamente mimetizzato da renderlo anonimo: perfino le insegne sono nere e di dimensioni ridottissime invece del tradizionale rosso sgargiante) e combattere la disidratazione con meravigliosi succhi di frutta preparati al momento in bugigattoli e baracchini ambulanti, dopo tanto lisergico barocco non rimane che spostarsi in cima a Floresta, attraversando la città da una parte all'altra, su una collina di fronte al Pichincha che tanto lo ha ispirato, a visitare la casa e le opere espressioniste di Oswaldo Guyasamín, uno dei maggiori pittori latinoamericani (il suo nome in lingua indigena significa “uccello bianco che vola”), scomparso nel 2009, tra cui spicca la Capilla del Hombre, che non ebbe la sorte di vedere completata in vita: l’intero complesso fa parte di una Fondazione aperta al pubblico a cui le ha conferite assieme alle sue ricche collezioni, sia di opere precolombiane sia di amici e colleghi pittori. Amico personale di personaggi come Pablo Neruda, Fidel Castro, Salvador Allende nonché di musicisti come Mercedes Sosa e Paco de Lucía, di cui ha eseguito due ritratti straordinari conservati nella sua abitazione, a sua volta disegnata e concepita da lui stesso, quando gli chiesero come mai l’avesse battezzata così rispose che se siamo capaci di erigere sontuose chiese dedicate a un dio che non sappiamo se esista o meno, perché non dedicare una più modesta cappella all'uomo, che non finiremo mai di conoscere?

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