venerdì 8 aprile 2016

Rosso


"Rosso" di John Logan. Traduzione di Matteo Colombo, regia di Francesco Frongia. Con Ferdinando Bruni e Alejandro Bruni Ocaña. Luci di Nando Frigerio. Produzione Teatro dell'Elfo. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 17 aprile. 
Mi ero "mangiato le mani" per non essere riuscito a vedere questa notevole pièce quattro anni fa, quando debuttò sempre all'Elfo ottenendo un travolgente successo, tanto da venire ripresa nell'autunno dello stesso anno e successivamente portata in tournée, e fortunatamente è stata rimessa in scena con il medesimo allestimento e, soprattutto, gli stessi interpreti: uno straordinario Ferdinando Bruni e il suo giovane emulo in  costante crescita e pressoché omonimo Alejandro Bruni Ocaña (nessuna parentela ma ormai membro effettivo della famiglia degli Elfi). Il primo dà vita, è il caso di dirlo, a Mark Rothko nel periodo del suo massimo fulgore come esponente di punta del cosiddetto espressionismo astratto: siamo alla fine degli anni Cinquanta quando il grande Mies van der Rohe (quello che mio padre considerava il poeta dell'architettura) gli commissionò una serie di murali per il ristorante Four Seasons di New York per il compenso ai tempi strabiliante di 35 mila dollari; il secondo il suo assistente e, suo malgrado, allievo Ken. Dei due anni del loro rapporto tempestoso e al contempo proficuo per entrambi parla Red di John Logan, sceneggiatore soprattutto di cinema, che con questa commedia vibrante, ha dato prova di cavarsela anche nei testi teatrali e qui reso impeccabilmente dalla regia di Francesco Frongia: si tratta dell'evoluzione della relazione tra il maestro affermato, amico e rivale di Jackson Pollock, scomparso pochi anni prima, artista pieno di convinzioni assolute sul significato dell'arte ma anche di dubbi sul suo senso attuale e sulla sua mercificazione, narcisista, egolatra ma al contempo sensibile e a suo modo generoso e il discepolo prima ossequiante poi sempre più critico, e che diventa, punteggiata com'è da dai dialoghi serrati, pieni di contenuto, sagaci e talvolta esilaranti, una riflessione sull'arte compiuta in ambito e forma  teatrale, dove il gesto dell'attore si fonde con quello del pittore, e non a caso Ferdinando Bruni è l'uno e l'altro, autore com'è delle stesse tele che compaiono in scena, copie delle originali di Rothko (suoi erano anche i bellissimi "cartoni" di Alice Underground). L'allestimento riproduce, con semplicità ed efficacia, lo studio di Rothko: con la sua poltrona preferita, il tavolino, il bourbon d'ordinanza, gli schizzi, le matite, i pennelli, i grandi quadri, i telai e i cavalletti, le latte di vernice, il giradischi, uno spazio in cui si muovono i due personaggi, in vesti da lavoro imbrattate, e che sembra espandersi fino al pubblico e inglobarlo. Un'esplosione di colori, a dominare il rosso in tutte le sue varianti, che simboleggia la vita, nella visione di Rothko, sempre più cosciente e terrorizzato di quanto presto sia destinato a essere sopraffatto inghiottito dal nero, emblema della voragine della morte. Finirà per ascoltare, dopo due anni in cui ha tiranneggiato Ken, le sue parole, e sarà una liberazione per tutt'e due dalle loro reciproche "gabbie". Applausi scroscianti e grati, e un successo che si rinnova.

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