venerdì 29 maggio 2015

Demel in anno


Wiener Einspänner - Kaiserlich und königliche Hofzuckerbeckerei Demel 
Kohlmarkt, 14 - 1010 Wien - Austria

giovedì 28 maggio 2015

Youth / La giovinezza

"Youth / La giovinezza" di Paolo Sorrentino. Con Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Wiesz, Paul Dano, Jane Fonda e altri. Italia, Francia, Svizzera, Gran Bretagna 2015 ★★★
Ho lasciato trascorrere alcuni giorni dalla visione dell'ultimo lavoro di Sorrentino per fare decantare le prime impressioni, che non si sono modificate nel frattempo: del tris di film italiani calato (senza esito in termini di premi: prevedibile, considerando la composizione della giuria) al Festival di Cannes, è quello che mi ha convinto di meno. Dopo un inizio fulminante, con la potente voce di Helen Rodgers, frontwoman della Retrosettes Sister Band di Manchester (e come sempre nei film del regista napoletano la colonna sonora ha un ruolo fondamentale assieme all'eccezionale qualità della fotografia di Luca Bigazzi) la pellicola si sviluppa, senza una vera e propria trama, ma dotata di una sceneggiatura quanto mai attenta e cesellata, attorno a una vecchia coppia di amici nonché consuoceri, Fred, un direttore d'orchestra inglese in pensione e Mick, un regista statunitense che sta lavorando al suo film "testamento", ottimamente interpretati rispettivamente da Michael Caine e Harvey Keitel, che stanno trascorrendo le vacanze in una lussuosa SPA sulle Alpi Svizzere (nel Cantone dei Grigioni; per la precisione) e si tengono compagnia discettando con ironica, disincantata intelligenza sul senso della vita e la diversa dimensione che assumono il tempo, nonché le illusioni e i sogni, a seconda dell'età; in realtà icone più che dialoghi, parole che diventano immagini, buttate lì più per passare il tempo che per fare i conti con sé stessi e i propri errori. Che vengono alla luce nel rapporto, che si intreccia al loro, con i rispettivi figli, che stanno separandosi: altra vicenda che non viene approfondita più di tanto, ma esemplificata, anche qui, con immagini, a contrasto, come la nuova fiamma del figlio di Mick, una cantante pop di rara volgarità come Paloma Faith (che ironicamente interpreta sé stessa). Altri personaggi di contorno, Miss Universo, anche lei in vacanza nella SPA, che a sua volta abbaglia i due vecchi che vedono incarnata in lei la dea della giovinezza, una giovane massaggiatrice/ballerina con apparecchio odontoiatrico, una prostituta impacciata, un sosia di Diego Armando Maradona grottescamente grasso che gira con una ragazza che gli fa da caddie, portandogli appresso, invece delle mazze da golf, una bombola d'ossigeno. Tutto ben fatto, insomma; citazioni cinematografiche ma anche letterarie sparse qui e là, però manca qualcosa: la sostanza. E senza questa, e l'adeguata profondità, il risultato è un film eccessivamente estetizzante, e lo dico con rammarico. Sabato avevo ascoltato un'intervista a Sorrentino a "Red Carpet" rubrica cinematografica su Radio Capital, in cui affermava di aver voluto trattare un argomento come la vecchiaia, e le riflessioni attorno a essa, con leggerezza: e questa c'è senz'altro, nei toni, ma non tanto da far "levitare" il film come il monaco buddista nella scena finale. Non credo che a Sorrentino faccia bene girare film fuori dall'Italia e con attori stranieri: anche se "This Must be the Place" mi era piaciuto molto, "Le conseguenze dell'amore"; "Il divo" e "La grande bellezza" erano tutti riusciti meglio e dotati di quella sostanza, o spessore, cui accennavo prima. E non a caso in tutti e tre protagonista era un attore, regista di formazione teatrale nonché drammaturgo come Toni Servillo, e a mio parere l'interlocuzione con un cast italiano avrebbe aiutato non poco a rendere meglio le intenzioni dell'autore. Forse Servillo sarebbe stato troppo giovane nel ruolo di uno dei due anziani, ma mi sarebbe piaciuto, senza nulla togliere a due mostri sacri come Caine e Keitel, vedere in azione per esempio Roberto Herlitzka assieme a Ferruccio Soleri, Umberto Orsini o Massimo De Francovich. Insomma, da vedere, però...

martedì 26 maggio 2015

Poaret


Per esempio, Probabile, Forse, Può darsi, Giammai, Nevvero, Dopotutto, Come no, Magari, Un attimino, Intanto, Eppure, All'incirca, Benché, Ahorita, Hold On, Davvero, Ora o mai più, Tra poco, Il robo, Quella cosa qui, Damm a trà, Düra minga, On cicinìn, Tutto a un tratto, Quasi quasi, Più tardi, Non ancora, Adesso, Volentieri, All'improvviso, Ma mi faccia il piacere, Bensì, Si figuri, E' permesso?, Prego si accomodi, Domani è un altro giorno, Si vedrà, Ma anche, Obemos, Si rizza, Il tavolo, Mannaggia, Cottolengo, Asilo Mariuccia, Bim bum bam, Anghingò, Celo-mima, Nel trattempo, Tiremm innanz, Andate in pace, OṃTira giù la cler, Ad libitum

domenica 24 maggio 2015

La cattiva memoria sul 24 maggio


Quando negli anni Sessanta andavo alle elementari, immancabilmente durante l'ora di musica, che nei miei ricordi veniva impersonificata dalla figura matronale di una pingue maestra di piano fervente nazionalista che aveva la stessa voce chioccia imitata da Edoardo Bennato in "In fila per tre", ci veniva imposto di intonare la grottesca, nonché manipolatoria, Canzone del Piave, quella secondo cui il fiume, ora un rigagnolo,  "mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il ventiquattro maggio", i primi di oltre seicentomila disgraziati mandati al massacro in una vera e propria guerra d'aggressione contro l'Impero Austro Ungarico, cui l'Italia aveva dichiarato guerra il giorno prima. Rammento che fino al 1914 l'Italia faceva parte, e da 32 anni, della Triplice Alleanza con l'Austria-Ungheria e la Germania, salvo dichiararsi neutrale dopo lo scoppio della Grande Guerra il 28 giugno del 1914 però aspettare fino al 4 maggio dell'anno successivo per effettuare la comunicazione ufficiale del totale disimpegno dall'alleanza dopo aver siglato, segretamente e dunque aggirando il Parlamento (contrario nella sua grande maggioranza all'entrata in guerra), il Patto di Londra il 26 aprile 1915 che sanciva la Triplice Intesa (con Francia, Gran Bretagna e Russia). Tralascio ogni commento sulle macchinazioni, gli intrighi, l'opportunismo, i tradimenti che sono una costante dei nostri governi, tanto da trasferire su tutta la popolazione la fama mondiale di inaffidabili voltagabbana, e mi limito a ricordare che l'asserzione "non passa lo straniero" è riferita sì al "fiume sacro alla patria", ma nel senso di Linea del Piave, l'ultima di difesa dopo la rotta di Caporetto, avvenuta il 24 ottobre del 1917, e nulla ha a che vedere con l'entrata in guerra. Mi è sembrata doverosa una rapida ricorstruzione di come andarono le cose, esattamente un secolo fa, proprio nel momento in cui la consueta, smemorata canea nazionalista se la prende con i presidenti della province autonome di Bolzano e Trento, e col sindaco bolzanino, che si rifiutano di celebrare l'anniversario, limitandosi a disporre l'esposizione del tricolore italiano a mezz'asta, in segno di lutto contro tutte le guerre, sugli edifici pubblici perché ritengono, giustamente, che non ci sia niente da celebrare nella ricorrenza dell'inizio della partecipazione a un macello su scala mondiale che avrebbe avuto, tra i suoi frutti, oltre al fascismo da noi, il nazismo in Germania, una seconda Guerra planetaria e la conseguente consegna dell'intera Europa nelle mani dell'Impero Americano. Peccato che all'iniziativa non abbia aderito Roberto Cosolini, sindaco di Trieste, altra città "irredenta", così felice di essere diventata italiana che ancora oggi la maggioranza della popolazione è più devota a Sissi e a Cecco Beppe che a Roma e dove, se si tenesse un referendum al riguardo, il ritorno all'Austria avrebbe la vittoria assicurata. Per "commemorare" in maniera alternativa la data odierna, non trovo di meglio che riproporre questa meritoria intervista di Elisabetta Reguitti a un altro triestino, lo scrittore di lingua slovena Boris Pahor, uscita sul Fatto Quotidiano di ieri, che dall'alto dei suoi 101 anni racconta il suo punto di vista su una guerra di cui fu lontano testimone. 


24 MAGGIO 1915-2015, BORIS PAHOR: “IL MIO SECOLO ‘ORRIDO’ E DIMENTICATO”

Lo scrittore autore di Necropoli, sloveno ma di nazionalità italiana, racconta la sua vita: dal periodo di stenti come deportato nel lager a tutto ciò di cui la civiltà del XXI secolo non ha voluto tenere conto

Boris Pahor, nato a Trieste il 26 agosto 1913, arriva a bordo di un’utilitaria. Lo scrittore autore di Necropoli scende e affronta la duplice rampa di scale che porta al suo studio a Prosecco (la frazione che ha dato il nome al vino) senza tentennamenti. Ci mette un po’ ad aprire la porta che introduce al suo mondo fatto di libri, fotografie, riconoscimenti, sculture e ricordi. Sloveno di nazionalità italiana, inizia il racconto di quello che chiama il secolo “orrido”. Vivace, intelligente e straordinariamente lucido, regala ricordi e aneddoti di una vita lunga e intensa: dal periodo di stenti come deportato nel lager a tutto ciò di cui la civiltà del XXI secolo non ha voluto tenere conto.
Cosa ricorda della Grande Guerra?
I cannoni che si sentivano ovunque. Trieste era disgraziata, non si riusciva a trovare da mangiare. Ricordo l’epidemia di “spagnola” che fece strage fra la popolazione. Io, mia mamma e le mie due sorelline fummo contagiati. Una delle due, Maria di soli 4 anni, ne fu vittima. La vegliammo nel nostro letto, fino al rientro di nostro padre dal lavoro. Era militare a Pola, allora Italia (oggi Croazia ndr) e non fu facile rientrare a Trieste anche se non era un lungo viaggio. Ricordo come fosse ora il suo dolore quando la vide. Era la sua preferita, la chiamava “Mimiza”.
Che immagini le sono rimaste del conflitto?
I colpi di cannone. La guerra la si sentiva nei muri: non proprio un rombo ma piuttosto un’eco. Una carneficina tremenda se si considerano le undici offensive delle truppe italiane contro la montagna. L’Italia fece l’errore di entrare in guerra per di conquistare il territorio sloveno e spingersi nel cuore dell’ Europa. Una strategia che allora non pagò. Solo molti anni più tardi, nel 1941, le truppe italiane, alleate dei tedeschi, riuscirono ad arrivare a Lubiana.
Come definisce il Novecento?
Un secolo del male, orrido. L’umanità, e in particolare i popoli europei, ha sopportato la tragedia di due guerre mondiali. La civiltà del XXI secolo è schifosa, senza memoria, continua a comportarsi in spregio all’etica politica e sociale. II dolore dei bombardamenti, la fame, la negazione dell’uomo nei campi di concentramento: sembra che tutto ciò non sia servito a nulla, tutto rimosso. Oggi, proprio ai vertici dello Stato in Italia, ma anche all’estero, si scassina e si ladroneggia senza alcun riguardo per il bene comune.
Come giudica Matteo Renzi?
È stato molto abile ad andare verso il centro senza pagare di proprio. Ha messo a rischio l’unità del suo partito e continua a farlo, ma di sicuro si muove con capacità e determinazione. Speriamo che non abbia però tendenze politiche univoche…
Papa Francesco?
Mi piace moltissimo anche se è in una posizione disgraziata. Come può pensare di cambiare la chiesa? Si continuano a vedere tutti gli aggeggi dei porporati, paramenti e simboli che ricordano la Chiesa del lusso, non quella dei poveri. Sono tutte posizioni di una casta che difficilmente potrà essere indebolita.
Come trascorre il tempo?
Oggi non mi ritrovo più nelle mie giornate. Fino a poco tempo fa ero abituato a lunghe passeggiate sulle montagne. Quando rientravo iniziavo a scrivere. Adesso continuo ad alzarmi presto, mi preparo la colazione e sono pronto per affrontare la giornata. Quello che è cambiato e che ora non riesco a essere sempre fedele alla macchina da scrivere. Ho appena finito, in sloveno, un diario di 180 pagine dell’anno passato. Di fatto mi sento disoccupato.
Viaggia ancora molto però
Non direi, quest’anno solo cinque viaggi.
Scusi professore ma lei ha 101 anni…
Anche questo è vero… (sorride). Vede però, per me spostarmi da Trieste a Prosecco richiede la stessa energia che partire per Parigi. Anzi, se viaggio in aereo, mi accompagnano in macchina e anche la mia borsa mi viene riconsegnata a destinazione. Non è dunque faticoso per me viaggiare. Io mi sposto solo per motivi culturali, non vado per sport o per piacere da nessuna parte.

da Il Fatto Quotidiano del 23 maggio 2015

mercoledì 20 maggio 2015

L'Expo di Slow Food: la biodiversità della cadrega

Carlo Petrini, fondatore di Slow Food
Dopo mesi di silenzio assordante, e tre settimane dopo l'apertura dell'Expo di Milano, ecco che si ode finalmente la voce del fondatore e vate di Slow Food, Carlin Petrini, in occasione dell'inaugurazione, ieri, del padiglione dell'associazione all'interno di quello che lui stesso ha definito, con le sue parole, "un Circo Barnum". Per giustificarne la presenza, e operando i consueti distinguo: "Siamo qui perché la sedia vuota non paga mai", ha esordito: la logica della cadrega, da non mollare a nessun costo, e la rivendicazione del ruolo di testimonianza morale, di critica costruttiva ma non avversa al cambiamento e quindi assolutamente irrilevante, salvo che per ottenere uno strapuntino in questa kermesse in tutto e per tutto consumistica, che si concreta esattamente nell'opposto di quello che sarebbe il suo tema: "Nutrire il pianeta", con il trionfo dell'ormai consueto travisamento del senso delle parole. Sembra di ascoltare, nel discorso di Petrini, argomentazioni e toni della cosiddetta "minoranza del PD" davanti alle riforme fascistoidi del fanfarone fiorentino e della sua schiera di ascari della prima e dell'ultima ora. Tra i primi, proprio l'ineffabile Carlin, insieme all'altro luogocomunista dell'eccellenza gastronomica italiana, Oscar Farinetti, grande amico e sponsor dello Stronzie, e che all'Expo ha ottenuto, guarda caso, l'assai contestato appalto senza gara per due padiglioni per complessivi 8 mila metri quadrati che ospitano l'osteria più grande del mondo, il quale era naturalmente presente in sala ad ascoltare il suo collega e conterraneo. Dalla mitica facoltà di sociologia all'Expo, dal PdUP e dal Manifesto all'area PCI/PDS/DS fino a essere nominato tra i 45 promotori dell'esecutore testamentario di quest'ultima, ossia il PD: un percorso esemplare all'interno della sinistra nostrana, pressoché identico a quello di decine di migliaia di altri "reduci". Era armato delle migliori intenzioni, Petrini, quando fondò l'ArciGola nel 1986, in piena epoca di riflusso e di craxismo trionfante, che diventò Slow Food tre anni dopo, come reazione all'invasione delle catene di fast food che ormai era cosa fatta e aveva minato alla base l'alimentazione degli italiani, e avvenuta di pari passo, guarda caso, con quella delle TV commerciali che ne avrebbe divorato il cervello: non per niente l'Italia di oggi è l'innegabile frutto della "svolta", chiamata anche quella "modernizzazione", di quei miserabili, inverecondi anni Ottanta; meritorie le prima battaglie contro lo strapotere dell'industria agroalimentare, a favore delle piccole produzioni locali e quindi contro gli OGM, che lo videro al fianco di José Bové, oggi parlamentare dei Verdi europei; però man mano l'associazione ha perso di vista i suoi scopi, la sua rivista è diventata sempre più patinata e ostaggio degli inserzionisti, tra i quali sempre più presenti e invasivi proprio coloro contro cui a parole ci si batteva (con sempre meno convinzione); la stessa, un tempo benemerita, "Guida alle Osterie d'Italia", edita dalla casa editrice dell'associazione, è andata somigliando sempre più a quella "Gault e Millau"edita dall'Espresso, ossia la bibbia del radical-chicchismo autoctono. A posteriori, mi azzardo perfino a dire che Slow Food sia stata responsabile della banalizzazione e dell'appiattimento, anche estetico, dell'offerta gastronomica di "qualità a prezzi onesti", sempre più manierista, velleitaria, saccente e per niente a buon mercato e della pressoché totale sparizione delle beneamate bettole veraci in favore di locali da fighetta, che si fregiano dell'adesivo con la lumachina. Lo dico con rammarico, avendo preso una delle prime tessere dell'ArciGola al momento della fondazione ed essendo stato socio fino a una decina di anni fa dello Slow Food. Ed è con commiserazione che ascolto le arrampicate sugli specchi di Carlin Petrini oggi, a giustificare la presenza a un evento (lo chiama così anche lui, come un milanesoide qualsiasi) che non per nulla vede come main sponsors Coca Cola e MerDonalds, ben felici di invadere un intero pianeta da rimpinzare con le loro letali armi chimiche. Con il beneplacito, lo vogliano o no, delle anime belle che si prestano a dar loro una patente di credibilità soltanto partecipando al loro gigantesco spot pubblicitario.

lunedì 18 maggio 2015

Tale of Tales - Il racconto dei racconti

"Tale of Tales - Il racconto dei racconti" di Matteo Garrone. Con Salma Hayek, John C. Reilly, Toby Jones, Bebe Cave, Christian e Jonas Lees, Vincent Cassel,Shirley Henderson, Guillaume Delauney, Hailey Carmichael, Stacy Martin, Alba Rohrwacher, Massimo Cecchini. Italia, GB, Francia 2015 ★★★★
Leggo pareri contrastanti sul film di Garrone, uscito giovedì scorso nelle sale italiane e contemporaneamente in concorso al Festiva dl Cannes, e questo è bene: nessuno che abbia messo in discussione la fattura del film, la bellezza delle immagini, la bravura degli interpreti; piuttosto la scelta da parte del regista romano di "internazionalizzarsi" e di farlo attraverso un genere, il Fantasy, raramente esplorato in Italia (l'aveva fatto, ma in chiave moderna, Gabriele Salvatores con "Il ragazzo invisibile"). Un fantasy particolare, però, basato su tre fra le 50 novelle medievali e rinascimentali scelte da Giambattista Basile per la prima raccolta europea di fiabe pubblicata a Napoli nella prima metà del Seicento: "Lu cuntu de li cunti", e quindi saldamente ancorato alla cultura italiana, così come lo era il "Decameron" di Pasolini del 1971, il primo film della "Trilogia della vita" che sarebbe stato completata da "Le mille e una notte" e "I racconti di Canterbury", che spaziavano fuori dai nostri confini. A me è il film è piaciuto molto, l'ho trovato non solo godibile e ben raccontato, pieno di colore, paesaggi suggestivi, ambientazioni accurate e realistiche, poetico ma al contempo ironico, ma in ogni caso "vivo" e piuttosto fedele alle tre fiabe che l'hanno ispirato e che sono a loro volta legate tra loro. Non vi ho visto alcun compiacimento granquignolesco nemmeno nelle scene "forti", e ho molto apprezzato che la regìa abbia saputo evitare di ricorrere a effetti speciali di tipo hollywoodiano, limitandosi (si fa per dire) a esaltare l'abilità di truccatori e costumisti di una bravura sbalorditiva. Chi si lamenta del fatto che Garrone, così abile a raccontare la realtà soprattutto meridionale e campana (ne "L'imbalsamatore", in "Gomorra" e nel più recente "Reality") con uno sguardo non convenzionale e al contempo dall'interno, sia andato a cercare ispirazione così lontano nel tempo, si dimentica del valore di parabole di valore universale che le favole hanno sempre rivestito, da che mondo e mondo, fin da quelle di Esopo, attuali ancora oggi, figurarsi quelle fiorite e raccontate in un secolo che assomiglia quanto mai a quello che stiamo vivendo, dove si possono leggere in trasparenza angosce, egoismi, pulsioni, paure, vizi del tutto umani e presenti, e perfino vedervi anticipati i caratteri in carne e ossa di alcuni personaggi che non occorre nemmeno citare e che dominano la vita pubblica dei nostri giorni. Oltre che a essere un prodotto cinematograficamente assai valido, trovo anche positivo che Garrone si sia rivolto a un pubblico eterogeneo sia per età, sia per formazione culturale: che il film aspiri a una dimensione internazionale è non solo lecito ma giusto. Con i migliori auguri per Cannes così come per un ottimo successo anche fuori dall'Italia.

venerdì 15 maggio 2015

Forza maggiore

"Forza maggiore" (Turist o Force majeure) di Ruben Östlund. Con Johannes Kuhnke, Lisa Loven Kongsli, Clara e Vincent Westergren, Kristofer Hivju, Fanni Metelius, Karin Myrenberg, Brady Corbet. Francia, Danimarca, Germania 2014 ???
Non è una novità per me rimanere sconcertato davanti al cinema scandinavo, così come capita con la letteratura, la musica, il modo di pensare e interagire di quei paraggi: una reazione per lo più attonita, che raramente, come nel caso di Kaurisimäki, assume una connotazione positiva. Valgono qui le considerazioni già fatte per "Un piccione...". Saranno anche "diversi", i nostri amici del profondo Nord, ma sono pur sempre europei e dovrebbero risultare meno estranei di un americano della Bible Belt, di un australiano del Queensland (la vetta del cretinismo sul pianeta), di un giapponese o di un indonesiano. E invece no. Invariabilmente mi si presenta l'enigma: "ci fanno o ci sono?" assieme alla domanda se registi, sceneggiatori e interpreti a quelle latitudini abbiano qualche serio problema mentale, ingigantito dall'assunzione di dosi massicce di sostanze alcoliche o chimiche di altro genere. Qui siamo davanti a un film pluripremiato, osannato dalla critica festivaliera e militonta come geniale, originale, divertente, con una sua "poetica dell'assurdo" e che accosta il regista della pellicola, lo svedese Östlund, a un altro autore incensato e, diciamo così, "problematico" come Haneke. L'idea di partenza non è neanche male: quali differenti ricostruzioni di uno stesso fatto, nel caso un evento traumatico, inneschi una reazione diversa davanti ad esso, e le conseguenze di ciò sull'immagine che ci si è costruiti dell'altro (e sul rapportio di coppia). Nella fattispecie, accade che al secondo giorno di una settimana bianca in un inquietante e ipermoderno residence sulle Alpi francesi da parte di una famigliola svedese, Tomas, Ebba e i due figli Vera e Harry, mentre i quattro sono a tavola su una terrazza panoramica fronte-montagna, vengano quasi investiti da una valanga che, per quanto programmata, sfugge al controllo e si infrange a poca distanza. Non succede di fatto nulla, spavento a parte, e tutti tornano al loro pranzo una volta che la nube bianca (suggestiva la fotografia della pellicola) che tutto avvolge si dissolve, ma un tarlo si insinua in Ebba: Tomas, invece di mettere al sicuro i figli, come prima reazione ha preso guanti e cellulare e si è allontanato. Nella ricostruzione della donna si insinua, cresce e radica il tarlo, che diventa sicurezza, che sia fuggito. Si innesca così uno psicodramma sempre più demenziale, che coinvolge un'altra coppia, sempre scandinava, oltre che una madre, svedese pure lei, in vacanza solitaria a caccia di stalloni, e che si sviluppa per due ore che sembrano infinite tra bottiglie di vino, sedute di autocoscienza, sensi di colpa che si scatenano, sguardi ottusi e masturbazioni mentali a manetta fino a quando la pellicola non raggiunge il climax, dopo un interminabile pianto autocommiserativo, con l'enunciazione, da parte Tomas, della massima che riassume il senso profondo di tutta questa menata: "Sono vittima dei miei istinti" (e mi odio e chiedo perdono per questa parte di me). Segue un doppio, inverosimile quanto ridicolo, happy end. Ora: Östlunbd sostiene di aver tratto ispirazione per il film dopo aver letto i risultati di una ricerca condotta da chissà quale prestigiosa università secondo cui le coppie sopravvissute a eventi traumatici (incidenti, catastrofi naturali e quant'altro) tendono a rompersi con una frequenza superiore alla media: sticazzi, verrebbe da dire. Ci voleva un'indagine scientifica? Su questa scoperta, nonché sulle differenze nei processi mentali tra donne e uomini, altra cosa inaudita, ha immaginato il film, ossia la grottesca seduta di training autospicoanalitico collettivo di tutto il cast, accuratamente selezionato per interpretare i vari personaggi e in verità perfettamente calati nella parte e adeguati al ruolo (Edda sembra un'Alessandra Moretti, la musa del PD, dall'espressione ugualmente stordita e indisponente, il marito un perfetto idiota dallo sguardo straordinariamente vacuo, per non parlare dell'altra coppia che sembra fuggita da un ricovero per dementi), in cui l'unico adulto normale sembra un inserviente del residence dai tratti lombrosiani, a parte i due bambini, che spiccano per maturità nei confronti dei genitori, probabilmente perché una società rimbecillita da uno Stato che tutto controlla, garantisce, appiattisce e rende in definitiva idioti, in cambio di un tranquillo benessere senza scosse, luogocomunista, politicamente corretto e senza scosse, non li ha ancora annichiliti. Il tutto con un tocco di umorismo di marca tipicamente scandinava. Vedete voi se vale la pena: io dico che si può evitare.

mercoledì 13 maggio 2015

L'inquilina del secondo piano


Compie oggi in letizia 18 anni, la maggiore età a tutti gli effetti, la gatta Filli, divenuta immediatamente il nume tutelare e il punto fisso dell'ambiente domestico che condividiamo da quando ancora abitavo tra Porta Romana e Porta Vigentina, a Milano, precisamente da sabato 21 giugno 1997. Per la verità a quel tempo eravamo in tre, anzi in quattro: per qualche mese ancora  avrebbe ancora retto, per quanto traballante, la convivenza con la mia ex coniuge e il suo cane. Anzi: era stata proprio lei a volere un gatto in casa, non bastava il suo quadrupede: un incrocio tra un setter e un labrador, pur sapendo della mia allergia a entrambi gli animali che mi aveva già condotto al pronto soccorso in un paio di occasioni (o forse proprio per questo). Come dell'altra quattro zampe (anch'essa una femmina), di Filli mi sarei alla fine occupato quasi esclusivamente io, essendo la moglie di quelle in carriera, ma a differenza della prima, l'ultima arrivata (il nome deriva da "Finalmente", ossia la fusione di due vizi tipicamente milanesoidi: la storpiatura delle parole per troncamento e l'uso ad minchiam dei diminutivi: la i finale al posto della y fu il mio unico contributo al nome di battesimo ricevuto dal nuovo membro della famiglia) avrebbe sviluppato con me un legame particolare che, a distanza di tanti anni, definirei di imprinting reciproco, perché è difficile stabilire quanto lei abbia preso da me e viceversa. Al contempo, mentre la gatta si abituava alla mia presenza, la mia allergia, comunque molto meno violenta a contatto con mici dal mantello nero (chissà perché poi, dato che non dipende dal pelo), veniva pressoché neutralizzata da una progressiva mitridatizzazione da parte mia (vedi alla voce omeopatia felina). Siamo subito diventati inseparabili: una settimana dopo il suo arrivo in casa aveva già fatto il primo viaggio all'estero, io e lei da soli, in macchina e senza un lamento, a far visita a mia madre in Austria, nel Salisburghese; due mesi dopo, tra Ventimiglia e Mentone, al mare. Qualche mese più tardi, in fase di separazione dalla consorte, quest'ultima aveva provato, in verità non in termini ultimativi, di porre la questione dell'affidamento della gatta, ma ha desistito dopo un mio sguardo che esprimeva, più eloquentemente delle parole, che sarebbe stato più probabile che lei volasse giù dal balcone dell'ottavo piano che non Filli uscisse dalla porta di casa. E' l'essere animato con cui ho trascorso, in piena armonia, la maggior parte del mio tempo in assoluto: più che con mia madre, più che con i Rolling Stones, più che guardando giocare o dissertando sull'Inter, perfino più che con i miei ventennali colleghi di lavoro all'ufficio correttori del CorSera, il che è tutto dire. Durante le mie assenze, della durata in alcuni casi anche di alcuni mesi, non ha mai combinato disastri o fatto dispetti: il massimo delle sue rimostranze si è sempre espresso in una decina di minuti durante i quali, al ritorno, fa finta di ignorare la mia presenza: non ha mai serbato rancore più a lungo. Da parte mia non l'ho mai tormentata con smancerie e toccacciamenti indesiderati: i gesti di affettuosità reciproca ancora adesso vengono da sé, senza forzature, spontaneamente; dorme sul letto ma non si è mai infilata sotto le coperte: da sempre resta accoccolata dalle parti basse delle gambe, sul lato sinistro. Come ogni gatto di buone maniere, mi sveglia all'alba con un buffetto sulla guancia o sulla testa, mai sugli occhi e comunque con estrema attenzione, e mai mostrandomi il deretano. Una relazione collaudata e solida, a prova di qualsiasi malinteso e incomprensione, schietta, rispettosa ma anche solidale e cameratesca, sincera, a smentire che non possa esserci amicizia e affetto, senza secondi fini, tra maschi e femmine. Filli ha visto la luce nella ridente e operosa Brianza in una pensione di fiducia di Beneggi, lo "Zoo" di Via Cesare Battisti, in fianco alla chiesa di San Pietro in Gessate, che rifornisce la Milano-bene che abita nella zona attorno al Palazzo di Giustizia e al Conservatorio, nella cui vetrina l'aveva adocchiata una mia carissima ex collega e amica, che l'aveva individuata tra i fratelli perché possedeva l'aria più furba, era la più intraprendente e si distingueva per il particolare della coda spezzata. "Io non potrei tenerla - il motivo era il suo compagno di allora -, ma se la prendi tu ti prometto che quando sei in vacanza o in viaggio vengo a curarla io: vai a vederla, ti piacerà senz'altro. La riconosci subito", mi disse la sera stessa al giornale, e così ogni giorno per una settimana, finché finalmente mi decisi di andare a vederla mentre uscivo dal portone dell'edificio di fronte, dove aveva ed ha tuttora lo studio legale il mio amico più stretto e di più lunga data, tra quelli conosciuti sui banchi di scuola: fu subito amore (con la gatta, non con Tonino). Sicuramente è anche grazie a Filli che ho superato il tormentato periodo della separazione a altre vicissitudini, tra cui la morte di mia madre, di quello che è stato l'anno nero della mia vita, il 1998: solo chi ha vissuto con un gatto, in particolare se nero, può capire quanto questi animali siano dei toccasana, degli autentici magneti capaci di assorbire e neutralizzare pulsioni ed energie negative. Tre anni dopo, mi avrebbe seguito in una nuova fase della mia esistenza, quella friulana: Back to the roots, come direbbe John Mayall. Gatta d'appartamento, si è subito sentita a suo agio in una dimensione completamente diversa, a tratti rurale: un ampio terrazzo al piano terra (e non un balcone a venticinque metri d'altezza, sui cui bordi faceva la spericolata equilibrista mentre io stavo male e avevo le crisi di vertigine al posto suo ogni volta che la vedevo in azione) e un grande giardino a disposizione; spazio diviso su più piani; una miriade di anfratti tipici di una casa di vecchia costruzione, insomma tutto un mondo da esplorare. Questa nuova dimensione ha poi permesso che sviluppasse ed esprimesse appieno un talento innato per la caccia che aveva mostrato fin da tempi milanesi, quando aveva freddato senza spargimento di sangue e con una precisione chirurgica, sul balcone, tutta una serie di uccellini, passeri in particolare ma perfino un merlo e un piccione, di quelli meneghini che talvolta hanno le dimensioni di una faraona. Qui, un paradiso. Nell'estate del 2004 la famiglia si è allargata. Un bel giorno di metà luglio, mentre si trovavano qui a villeggiare le due gatte padovane di mia cugina Caterina, nel suo ostinato tentativo di farle ingravidare da nerboruti e rusteghi gatti furlani, ha fatto la sua apparizione in terrazza il gatto Leo, maschio (detto Leonzio, il Gatto Stronzio, e anche Cencialtri, per la sua espressione sornionamente stolida), un batuffolo tigrato e urlante di forse tre settimane alla ricerca di cibo: le tre gatte, come per tacito accordo, senza fare una piega gli hanno lasciato via libera verso la cucina, quasi indicandogli dove avrebbe trovato di che nutrirsi. "Questo rimane" dissi subito, consapevole del destino nonché di una verità incontrovertibile: non sei tu a scegliere il gatto ma è il gatto a scegliere te. E così fu. Filli ha accettato Leo, ma non l'ha mai amato o nutrito per lui uno spirito materno. O meglio, non gli ha dato confidenza e lo ha immediatamente messo in guardia dal non tentare strane avance nei momenti di picco ormonale, senza nemmeno bisogno di passare alle vie di fatto: un paio di ringhi e l'esposizione della dentatura con tanto di soffi a mo' di sifone di cetaceo sono stati più che sufficienti per insegnargli a stare alla larga e non violare il suo lebensraum. La raffinata cittadina e il brombolo campagnolo: mi hanno sempre ricordato la versione felina di Ino, il topo cittadino, e Gigio, quello di campagna, della mia infanzia. Hanno convissuto tenendo le dovute distanze fino a un paio d'anni fa, quando Filli, che da sempre aveva avuto il privilegio dell'accesso Full Area a tutta la casa, in particolare al secondo piano dove si trova la zona-notte e, soprattutto, il sancta sanctorum del nostro talamo (lo stesso di Milano), vi si è progressivamente ritirata, mentre a Leo è rimasto interdetto l'accesso alle scale ma concessa, in compenso, una libera uscita illimitata, che ha sfruttato spargendo discendenza in tutto il vicinato, dove i gatti sono pressoché tutti tigrati e con la stessa espressione stordita del loro inequivocabile genitore (ora a forzato riposo per motivi igienico-sanitari). Nel frattempo Filli è diventata sempre più sorda, e di conseguenza anche più alta e talvolta sguaiata la sua voce: non si sente, mi spiegava il veterinario di fiducia, come anche il fatto che sia normale che i gatti, invecchiando, riducano man il loro campo d'azione delimitando una propria zona di sicurezza che diventa la loro area esclusiva. Ormai solo raramente e con estrema circospezione, quando è sicura che nessuno la veda (o almeno lo crede), si avventura giù per le scale, a controllate la situazione, e non appena scorge Leo, da una finestrella, batte rapidamente in ritirata, ma nel secondo piano incede ancora come una regina: tutto è sotto il suo attento controllo e invariabilmente qualunque cosa si muova è di sua competenza e, se animata, inesorabilmente fatta secca. E' successo a svariati topini da solaio, regolarmente e amorevolmente depositati sul letto, meglio ancora se sul cuscino, bene in mezzo e disposti in verticale (attenzione per cui viene ogniqualvolta lodata e premiata dal sottoscritto), a uno scoiattolo di quelli grigi, da importazione, a un paio di pipistrelli e a qualche decina di scorpioni e altri esseri semoventi o volanti. Gode di ottima salute e buon appetito: manco a dirlo ha gusti e fisime da "fighetta", per esempio disdegna il pesce, in qualsiasi forma, ma in compenso va pazza per il parmigiano reggiano (quello vero: il semplice "padano" lo lascia lì, arricciando schifata le delicate nari e distogliendo sdegnosamente lo sguardo) e così, dopo che l'anno scorso aveva a malapena assaggiato, con aria condiscendente e giusto per farmi piacere del succulento filetto di manzo crudo che le avevo servito come regalo, per il raggiungimento della maggiore età le ho fatto le cose in grande: un piattino con uno spesso velo di parmigiano invecchiato 24 mesi, su cui troneggia una grattugia appena utilizzata da pulire e "rifinire" con la lingua. Auguri, Filli, e centinaia, magari migliaia di questi giorni ancora!

lunedì 11 maggio 2015

Child 44 - Il bambino n. 44

"Child 44 - Il bambino n. 44" (Child 44) di Daniel Espinosa. Con Tom Hardy, Noomi Rapace, Gary Oldman, Joel Kinnaman, Paddy Considine, Nikolaj Lie Kaas, Josef Altin, Jason Clarke, Sam Spruell, Vincent Cassel, Charles Dance e altri. USA 2014 ★★★½
Dopo un film russo, attuale ma che affronta temi universali, un film ambientato in Russia, ma quella del dopoguerra, nelle ultime fasi del periodo staliniano, nel 1953, dove viene trasposta, retrodatandola di una trentina d'anni, la vicenda, reale e raccapricciante, del Mostro di Rostov, Andrej Čikatilo, uno dei più feroci assassini seriali mai esistiti. A dargli la caccia, un brillante ufficiale dell'Armata Rossa, e non uno qualsiasi ma Leo Demidov: quello che sventolò la bandiera sovietica sul tetto del Reichstag di Berlino, nel maggio di settant'anni fa. Ma perfino lui, nell'URSS paranoica, un "paradiso" dove solo ipotizzare l'esistenza di criminalità e, sia mai, omosessualità e pedofilia è un attentato contro la sicurezza dello Stato, avrà la vita dura quando deciderà di non soprassedere sul secondo ritrovamento del corpo di un ragazzino squartato in maniera chirurgica lungo una importante linea ferroviaria che da Mosca porta a Rostov mentre il suo superiore gli aveva ordina di non approfondire e adeguarsi alla verità ufficiale. Finirà degradato, in provincia, ma inaspettatamente troverà la collaborazione del suo nuovo superiore, un generale a sua volta "esiliato", che dapprima gli è ostile ma poi lo coadiuva nella caccia al maniaco assassino, di cui riusciranno alla fine trovare le tracce dopo aver scoperto più di altri quaranta casi dimili (da qui il titolo). Etichettato da una parte della critica come una sorta di polpettone, il film in realtà funziona, è ben congegnato, conserva sempre la giusta tensione, è ricco di colpi di scena rimanendo sempre verosimile, trasportando lo spettatore "dentro" alla pellicola e facendolo immedesimare coi protagonisti (molto bravi e credibili) anche grazie a un'ambientazione che rende molto bene l'atmosfera cupa di quali anni e la realtà del Paese, delle sue fabbriche, della sua vita quotidiana e delle relazioni tra le persone in tempi di generalizzato sospetto. A titolo d'esempio il rapporto tra lo stesso Leo e l'amata moglie Raïssa, un'insegnante che a sua volta lo aveva sposato solo per paura di essere denunciata e perseguitata dal regime: cambierà opinione sul marito e il loro rapporto prenderà una piega diversa proprio nel corso delle peripezie che porteranno alla soluzione del caso. Che si chiude all'aprirsi di un'altra epoca, quella dell'ascesa al potere di Chruščёv con la denuncia dei crimini staliniani e la rimozione dei loro responsabili dalle leve del potere. Insomma un buon film dove azione, storia, sentimento, suspense si fondono con buon equilibrio. A me è piaciuto. 

sabato 9 maggio 2015

Leviathan

"Leviathan" di Andrei Zvyagintsev. Con Aleksey Serebyakov, Elena Lyadova, Vladimir Vdovichenkov, Roman Madyanov, Anna Ukolova, Aleksey Rozin, Sergey Pokhodaev, Kristina Pakarina, Igor Sergeyev e altri. Russia 2014 ★★★★
Premiato come miglior film straniero ai Golden Globe, nominato all'Oscar, premiato per la sceneggiatura a Cannes, Leviathan è un film potente che evoca metafore bibliche fin dal titolo: solido, talvolta anche troppo ma non greve, ha i suoi punti di forza nell'ambientazione in un paesaggio desolato, aspro, ai confini del mondo (siamo in un villaggio di pescatori sulla costa del Mare di Barents) e nella qualità degli interpreti, capaci di rendere palpitante e tesa una storia ben raccontata, lineare nonostante i molti riferimenti etici, religiosi, politici e filosofici. Osteggiato in patria, perché non mancano le allusioni alle storture del sistema di potere russo, il Leviatano che incombe su Kolia, il novello Giobbe personaggio centrale del film, non è solo lo Stato con le sue ramificazioni, ma il destino quasi inevitabile di qualsiasi uomo che osa ribellarsi contro gli abusi e le sopraffazioni di un potere, in tutte le sue forme (anche quello ecclesiastico) avido quanto banditesco e senza regole a qualsiasi latitudine. La casa e l'officina di Kolia, situate su un promontorio particolarmente panoramico, dove la sua famiglia vive da generazioni, viene espropriata con l'inganno dal sindaco intrallazzone ed affarista in vista di una colossale speculazione edilizia, cui dà man forte un potere giudiziario altrettanto corrotto, volutamente cieco di fronte alle sue malefatte perché complice. In aiuto di Kolia da Mosca arriva Dimitri, avvocato, suo ex compagno d'armi e amico fraterno, che ha messo assieme un dossier che inchioda il politicante: pur con una sentenza sfavorevole, sembra poter avere qualche possibilità di fargli pressione al fine di desistere, e tanto basta per tenere a freno Kolia, che già avrebbe voluto farsi giustizia da sé oppure andarsene, come auspicherebbe la sua nuova compagna Lylia (l'eccezionale Elena Lyadova). Ma non bastano le pressioni esterne: ci sono i conflitti col figlio adolescente Roman, rimasto orfano di madre e che non riesce a legare con la matrigna, nonché la scoperta di una relazione tra la stessa Lylia e Dimitri, che rientra a Mosca dopo essere stato pesantemente minacciato da sindaco e dai suoi sgherri. E ancora non è sufficiente, perché Kolia viene perfino incolpato della morte di Lylia, che in realtà si è suicidata buttandosi da una scogliera, ma nessuno può testimoniare a discarico del marito che si vede alla fine condannato a 15 anni di prigione, incastrato da un meccanismo contro cui non ha alcuna possibilità di difesa: nessuna restituzione dei beni e loro raddoppio, come per il biblico Giobbe, ma espiazione di una pena per colpe che non ha. Non un film facile, ma vivo, di grande realismo e suggestione, ben strutturato, ben fatto, convincente. E consigliato.

giovedì 7 maggio 2015

Da Napolitano a Palemmitano: fedeli alla linea!

Continuità, stabilità, coerenza. O qualcuno pensava che Mattarella avrebbe potuto sconfessare coloro che lo hanno eletto alla presidenza della Repubblica?

martedì 5 maggio 2015

domenica 3 maggio 2015

Sarà il mio tipo?

"Sarà il mio tipo? e altri discorsi sull'amore" (Pas son genre) di Lucas Delvaux. Com Émile Dequenne, Coïc Corbery, Sandra Nkake, Charlotte Talpaert, Anne Coesens e altri. Francia 2014 ★★★★
Scottato dal mediocre "The Fighters", ammetto di essere andato a vedere "Sarà il mio tipo?" (ma perché quel punto di domanda furbesco e ammiccante nel titolo italiano? Siamo alle solite...) discretamente prevenuto, aspettandomi, dopo la visione dei trailer e la lettura rapida della trama, una classica commedia basata sugli opposti che si attraggono, con lieto fine incluso nel "pacchetto", e invece ho assistito a un bel film, coinvolgente, ben costruito e recitato, raccontato in modo scorrevole e vivace ma con uno sguardo acuto e attento alle sfumature. Non una semplice commedia sentimentale, ma una commedia sui sentimenti, o meglio sull'amore, come lo intendono, declinato al maschile e al femminile, due persone di provenienza socio-culturale diversa. Clément è un giovane professore di filosofia parigino, figlio di una psichiatra e di un alto dirigente statale, anche scrittore di discreto successo, frequentatore assiduo del milieu intellettuale della "sinistra allo champagne", che viene dirottato per un anno a insegnare in un liceo di Arras (la città di origine di Robespierre) nel "rustego" Nord del Paese, e affronta di malavoglia questa sorta di passaggio obbligato della sua carriera: ritenendola una seccatura provvisoria, non pensa nemmeno a integrarsi nella vita cittadina e si limita a soggiornare in albergo tornando nella capitale per dei fine settimana estesi. Gli capita però di incontrare Jennifer, una attraente, simpatica e vitale ragazza madre, di professione parrucchiera, che è il suo esatto contrario: legge riviste di gossip e romanzi rosa, è appassionata di karaoke, è una sognatrice e alla ricerca del grande amore quanto Clément è disincantato fino al cinismo, sostanzialmente un arido, che razionalizza e intellettualizza ogni cosa. La coppia però funziona, specialmente a letto, e per un primo, iniziale periodo, ciascuno dei due è disponibile a tastare il terreno su cui si muove l'altro e a "contaminarsi", ma mentre la ragazza accoglie con disarmante semplicità Clément nella sua casa e nel suo mondo, quest'ultimo limita la frequentazione di Jennifer al suo soggiorno ad Arras, e mai si sognerebbe di portarla con sé a Parigi a uno dei vernissage o convegno a cui partecipa. Il "muro" della differente provenienza sociale, ma anche del diverso modo di vivere un rapporto sentimentale, emerge dopo qualche mese già in un un primo confronto verbale, ma diventa definitivamente invalicabile in occasione di un piccolo, apparentemente ininfluente, gesto, di cui Clément nemmeno si tende conto tanto gli viene automatico, e che invece sarà decisivo per Jennifer. Non ci sarà alcun happy end, perché la ragazza, molto più intelligente di Clément nonostante tutta la sua cultura, saprà prendere, e in modo sorprendente, la decisione giusta. Per sé e anche per lui, che forse, per una volta nella vita, avrà imparato qualcosa dall'esperienza. Buona parte della riuscita della pellicola è dovuta alla scelta dei due protagonisti: Corbery proveniente dalla Comédie Française, ma soprattutto la bravissima Émile Dequenne, che esordì nel ruolo di Rosetta coi fratelli Dardenne una quindicina d'anni fa, capace di un'interpretazione strepitosa: grazie all'attrice belga, questo film compie il salto di qualità decisivo.