venerdì 23 gennaio 2015

Deathaly


No future! Se rimane valido il detto per cui in Italia tutto accade prima a Milano, questo Paese è morto. Ne ho avuto la conferma ieri sera quando, lasciatomi convincere da un mio stretto parente, ormai milanesizzato a sua insaputa, a superare i miei pregiudizi da retrogrado irrimediabilmente ancorato al passato e quindi poco smart, mi sono deciso a visitare l'ultimo nato, da quel che ho capito, dei negozi, pardon, Concept Store, "Eataly", la catena creata da Oscar Farinetti, una specie di botolo ringhioso pieno di sé non a caso amico e tra i massimi sponsor di Matteo Renzi, in Piazza XXV Aprile a Milano, inaugurato la scorsa primavera. Emblematica la location scelta: il luogo della massima concentrazione dei modaioli di merda autoctoni e di importazione, nel cuore del primo quartiere di Milano "sanificato" già dagli anni Settanta dalla presenza storica della componente popolare indigena, deportata in periferia o nell'hinterland, quello di Brera/Garibaldi/Porta Volta, adattando alla nuova funzione commerciale e quindi stravolgendo la struttura di quello che fu fino a pochi anni fa il glorioso Teatro Smeraldo. Un obbrobrio pretenzioso, plastificato e vetrificato, sberluccicante e posticcio fino all'ultimo dettaglio, dominato da un lucore biancastro e da trasparenze che mettono in risalto e rendono ancora più sgargianti e inverosimili i colori di frutta e verdura esposti sulle bancarelle di un finto mercato nella improbabile "piazza" al pian terreno, mentre ai piani superiori, alle varie "botteghe" dei diversi settori merceologici, si accede tramite scale mobili o un ascensore trasparente. Sembra di essere capitati in un film di Tim Burton ambientato al Duty Free dell'aeroporto di Dubai, reso però, se possibile, più asettico e impersonale. La fauna che vi si aggira, attirata da un percorso esperienziale in chiave enogastronomica nell'eccellenza della produzione italiana, oltre ai puzzoni che hanno preso il posto della popolazione originaria del quartiere, è per la maggior parte quella tipica delle primarie del PD, quota immigrati dal Terzo Mondo esclusa, fedele lettrice di Repubblica e dei suoi inserti e pubblico affezionato dei vari Crozza, Fazio, Floris, Santoro e compagnia cantante, mentre non mancano shopaholics di varia provenienza ma tutti, va da sé, trendy: insomma la stessa che ha reso ormai infrequentabili delle istituzioni per ghiottoni e buongustai "alla mano" come il mercato della "Boquería" di Barcellona, tanto per fare un esempio. Sgomento, non ho resistito in questo tempio della fuffa sotto vuoto spinto più di un quarto d'ora, con la tentazione di affrancarmi dall'esperienza e infilarmi nel primo "Döner Kebab" o rosticceria indiana che avessi incrociato per sentirmi nuovamente a mio agio e tra i miei simili, a distanza di sicurezza dai mutanti che circolano là dentro. Una sola parola a compendio dell'"esperienza": imbarazzante. Per la sguaiatezza e la mancanza di buon gusto nell'esposizione dell'offerta: non c'è il minimo di finezza, la possibilità di un vago senso di una scoperta. Tutto è esibito e strombazzato, a cominciare dalla supposta filosofia del "chilometro zero" che sarebbe ispiratrice all'intera operazione (di puro marketing), una truffa che si rivela già in partenza a meno che non la si intenda come "annullamento delle distanze" perché basta andare sul sito internet per verificare che, a Torino come a Roma, a Bari come a Genova, a Piacenza come a Milano o quelli all'estero, gli Eataly propongono ovunque non solo la medesima formula, il ché fin qui ha una sua logica, ma gli identici prodotti e financo gli stessi punti di ristoro. Il trionfo dell'ostentazione, dell'"autentico finto" a prezzi da gioielleria (già sento l'obiezione: "ma ho visto delle arance a un euro al chilo come al mercato, e la pizza la mangi seduto e costa meno che fuori, e i panini sono meglio di quelli al bar, e poi è aperto fino alle 11 e io ho riunioni fino a tardi", come se i prezzi-civetta li avesse inventati il Farinetti), una tale trovata, anzi una fabbrica di eventi studiata a tavolino in cui si incontrano il provincialismo del Piemonte profondo e la megalomania del milanese "arioso", quello originario principalmente della Brianza, che ha soppiantato definitivamente gli autoctoni già ai tempi del "boom" degli anni Sessanta, non può che incontrare il favore di una piazza come questa e non ho alcun dubbio che l'Eataly all'ombra della Madonnina sarà quello che avrà il maggiore successo: il milanes 2.0, perennemente connesso con le ultime novità, è famoso per la sicurezza disinvolta con cui esibisce la propria inadeguatezza e ignoranza in terreni  che gli sono del tutto estranei come se le avesse inventate lui e non gli fossero invece servite su un piatto d'argento per farlo abboccare. E pagare. D'altronde Milano si è brianzolizzata, le sue mode, i suoi trend, rispondono all'estetica del brianzolo (la genia dei Berlusconi ne è un esempio preclaro, mentre sulla sponda sedicente opposta veleggiano Civati e i suoi emuli: basta andare dall'altra parte dei Bastioni e li si trova tra gli habitué dell'Anteo, tra cui abbondano gli stronzi insopportabilmente spocchiosi), in più, è contagiosa, così come lo è l'idiozia, e la sindrome colpisce invariabilmente entro breve tempo anche chi proviene da più lontano. La mutazione degli inurbati comincia con l'uso di mettere l'articolo davanti ai nomi (e cognomi) di persona, per poi prendere il vizio di esprimersi a diminutivi a sega (è meneghino l'inventore di "attimino") e far proprio il vezzo di troncare le parole a metà o anche meno e così risparmiare il fiato per sparare più cazzate in una volta sola: per cui dopo aver passato la giornata in "office", vecchi e nuovi milanes si trovano per l'ape al "Mage" e per smaltirlo poi vanno in pale a fare spin, fanno un salto a Roma sul Freccia, il pieno di benza al self e nel fine settimana piombano a Santa o a Courma a meno di non essere in tribu al Sansi col Gióva e il Giánca, mentre la Féde e la Frànci fanno un giro in Monte o alla Rina per via dei saldi; dotati della Fidelity d'ordinanza, massima aspirazione quella "Oro", fanno la spesa rigorosamente all'Esselunga, unica parola che pronunciano per intero in omaggio al Caprotti, forse perché inizia per "esse" come spandimerda e sboroni. Contagioso anche Eataly: in zona sono spuntati come funghi locali e ristoranti dai nomi e dalle proposte più assurdi a prezzi inavvicinabili, oltre ai consueti sushi nippocinesi in versione limousine. Tra le new entry mi sono rimasti impressi Sciàtt à porter e Wiener Haus il quale, come "original wienerschnitzel", propone una braciola di maiale con osso impanata, che c'entra con quella autentica quanto il "parmeggiano" Made in China con quello nostrano o la pizza di "Spizzico" con quella di Sorbillo. Niente di strano in una Milano che dagli anni Ottanta in poi si è bevuta anche l'anima, oltre a un terzo degli abitanti, dove quelli rimasti se in una trattoria chiedi una busecca o un rustin negàa ti guardano come se fossi un alieno, in cui risulta pressoché impossibile trovare una cassoeula e se hai la fortuna di poter ordinare un ossobuco con risotto appena discreto spendi una fortuna. Ma và a dà via il cù, e l'Expo con le sue mille luci, le proposte spettacolari e i suoi effetti mirabolanti deve ancora cominciare!




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