sabato 30 marzo 2013

Perché ci vuole orecchio, bisogna avere il pacco...

Se ne è andato ieri, a 77 anni, Enzo Jannacci. Nato, da immigrati pugliesi, vissuto e morto in quella Milano che amava in maniera struggente e di cui è stato il cantore più profondo. Milano è sempre stata, in particolare nei due dopoguerra del secolo passato, città di immigrazione, in cui i nuovi venuti, grazie a un humus  preesistente particolarmente fertile, si integravano molto più facilmente, velocemente e felicemente che altrove diventando presto meneghini tout court (Milano è la più grande città pugliese al mondo, prima ancora di Bari, ad esempio). Strehler, Gaber, Celentano: sono i primi esempi che mi vengono in mente, per rimanere nel campo dello spettacolo. Figlio anch'io di immigrati, "nativo" di Porta Lodovica  all'ombra di Sant'Eustorgio (dove c'è tuttora il celebre Bar Gattullo, sede dell'ufficio facce fondato da Beppe Viola e covo di milanisti, forse motivo inconscio per cui mi sono spostato nell'adiacente Porta Romana, feudo nerazzurro), ero legato a quella Milano in modo viscerale. Non c'è più da un pezzo la città la cui anima Jannacci era capace di descrivere con un linguaggio unico, solo apparentemente surreale e strampalato, ed è la ragione per cui ne sono scappato ormai più di dieci anni fa, incapace di riconoscerla e di sopportarne l'abbrutimento, la perdita di identità e il degrado della dimensione comunitaria e solidale che era la sua caratteristica, e con lui se ne va un altro frammento di memoria. Musicista, poeta, medico, soprattutto uomo, e con un cuore enorme: forse per questo si era specializzato in cardiochirurgia. Va da sé: aveva anche orecchio. Enorme anche questo, come sulla copertina di uno dei suoi dischi di maggiore successo, non solo a livello locale. Ci mancherai tanto, Enzo. Come usava dire un altro milanese acquisito, Gianni Brera, al momento di salutare la dipartita di un amico, che la terra ti sia lieve.

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