mercoledì 30 gennaio 2013

Il panico


“Il panico” di Rafael Spregelburd. Regia di Luca Ronconi. Traduzione di Manuela Cherubini, scene di Marco Rossi, costumi di Gianluca Sbicca, luci di A. J. Weissbard, suono si Hubert Westkemper, trucco e acconciature di Aldo Signoretti. Con Maria Palato, Francesca Ciocchetti, Fabrizio Falco, Paolo Pierobon, Valentina Picello, Valeria Milillo, Riccardo Bini, Iaia Forte, Sandra Toffolatti, Maria Pilar Pérez Aspa, Alvia reale, Clio Cipolletta. Elena Ghiaurov, Manuela Mandracchia, Bruna Rossi, Lucrezia . Guidone. Produzione Piccolo Teatro di Milano - Teatro d’Europa. Al Teatro Strehler di Milano fino al 10 febbraio
“Il testo è costruito apposta perché il pubblico non capisca: perché capirà dopo... Ci devi pensare quando sei uscito”. Luca Ronconi, il guru del teatro italiano, dixit. Così in un’intervista del libretto dello spettacolo. Ho lasciato quindi decantare la perplessità che mi aveva suscitato la visione ieri sera de “Il panico”, secondo testo dell’Eptalogia di Hieronymus Bosch del drammaturgo argentino Rafael Spregelbrud ispirato ai Sette Peccati Capitali messo in scena da Ronconi, col risultato che si è trasformata in disappunto, e la domanda che mi sorge è quale sarebbe stato il risultato se “La modestia”, presentata due anni fa, e “Il panico” le avesse affrontate un collettivo affiatato come quello degli Elfi, per rimanere nell’ambito milanese e quindi senza andare lontano. Dello spettacolo non temevo né la durata, due ore e quaranta al netto dell’intervallo, né la complessità del testo, il suo gioco di rimandi interni, i riferimenti, ma la tendenza alla masturbazione intellettuale ossessiva del regista, che rischia, insieme a un impianto acustico forse imperfetto (o forse anche alla recitazione un po’ troppo flautata da parte di alcuni interpreti), a renderlo meno intelleggibile di quello che già sia. Nessuno va a uno spettacolo del “Piccolo” per mero intrattenimento con la pretesa di non azionare le sinapsi, altrimenti si rivolgerebbe a qualche musical o alle tante proposte “leggere” che affollano i cartelloni, ma rendere la comprensione ostica al fiducioso quanto incauto spettatore pagante non è un bel servizio. Nonostante la scena glabra e monocromatica, avventurosamente declinante verso la platea, a sottolineare l’instabilità dell’esistenza, il fragile confine tra vita e morte, la sottile linea che separa l’accidia (questo il peccato preso di mira) dal “panico” del titolo che ne deriva, lo spettacolo ha una sua vivacità, i cambi si scena sono fluidi, e gli attori si muovono bene, per cui il primo atto, pur durando un’ora e mezzo, scivola via relativamente veloce e con un buon ritmo. E’ nel secondo, che dura un buon terzo in meno, che il meccanismo si inceppa e ne è testimone la reazione del pubblico che, sfoltito nel corso dell’intervallo, regala un tiepido applauso di pura stima, molto meno convinto di quello tributato alla chiusura del sipario sulla prima parte. Concordo con Ronconi e con Escobar che Spregelbrud sia tra i pochi autori contemporanei capaci di una ricerca nella contemporaneità senza cadere nella trappola dell’attualità (che l’autore stesso definisce “la sorella scema della realtà”), e anche che il suo lo spettacolo, che potrebbe essere visto come un “horror metafisico” quanto “La modestia” come un “metafisico noir”, ha delle valenze universali (tali sono per definizione l’accidia e, come conseguenza, il panico), ma i riferimenti alla realtà argentina e, in alcuni casi, strettamente porteña (credo di essere stato tra i pochi presenti in sala in grado di capire la differenza tra il fatto di affittare una casa a Palermo Viejo, abitare a San Isidro oppure a Caballito, tre “barrios” di Buenos Aires con caratteristiche e storie diverse, così come generalmente si ignora che nella capitale argentina, e non a caso, esercitino più psicoterapeuti che a New York, per cui risulta essere la città più psicanalizzata al mondo) sono così particolari, che non si possono dare per scontati, e nemmeno che lo spettatore medio si sia premurato di leggere il libretto di presentazione che spiega quanto l’opera di Spregelburd, e questa in particolare, sia legata al contingente della crisi economica del 2001 e tutta la parte dello spettacolo incentrata sui “morti viventi”, che non si riesce a seppellire, non sia una trovata macabra e sarcastica, ma faccia riferimento alla tragica vicenda dei 30 mila desaparecidos vittime della dittatura che ha appestato il Paese tra il 1976 e il 1983. Sono cose che il pubblico medio, complice la vergognosa ignoranza mista e indifferenza dell’informazione e della politica nostrana, sebbene a parole tanto esterofile, nei confronti di un Paese pur così strettamente legato e simile all’Italia, ignora. Ed è qui che l’intellettualismo di Ronconi diventa presunzione e sconfina nell’arroganza. Oltre che nella pallosità. Peccato. Tra gli attori, Elena Ghiaurov e Sandra Toffolatti una spanna sugli altri, una sicurezza Maria Palato e Paolo Pierobon, per il resto a mio parere siamo nella routine: neanche gli attori possono fare miracoli con una messa in scena discutibile.

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