venerdì 28 settembre 2012

Il rosso e il blu

"Il rosso e il blu" di Giuseppe Piccioni. Con Margherita Buy, Roberto Herlitzka, Riccardo Scamarcio, Silvia D'Amico, Davide Giordano. Italia 2012 ★★ =
Non ho letto il libro omonimo di Marco Lodoli (ex insegnante e quindi in grado di raccontare con cognizione di causa la scuola italiana del Duemila) da cui è tratto il film di Piccioni ma il risultato è deludente. Una pellicola che ha in una certa lievità il suo unico pregio, ma mette troppa carne al fuoco con la pretesa di affrontare temi diversi, dal disincanto al disadattamento dei professori, precari e non, all'indifferenza ed estraneità degli studenti, alle loro diverse ma stereotipate situazioni famigliari, alle turbe sentimentali fino alle tematiche dell'immigrazione, senza riuscire ad affrontarne credibilmente nessuno. Non aiuta la pochezza degli interpreti: Margherita Buy è prigioniera dell'unico ruolo che le riesce naturale probabilmente senza dover recitare, ossia quello della nevrotica depressa; Riccardo Scamarcio ha una sola espressione, quella dell'occhio di triglia, perlomeno viva, a differenza di quello da triglia lessa, ossia morta, di quell'altro oggetto delle fantasie pruriginose delle nostre conterranee, quello Stefano Accorsi che fortunatamente da qualche tempo è lontano dalle scene cinematografiche. I ragazzi interpretano sé stessi e sono accettabili; l'unica che recita una parte, Silvia D'Amico, è bene che cambi mestiere prima di fare altri danni. In mezzo a tanta mediocrità brilla di luce propria Roberto Herlitzka, tarda scoperta del cinema nostrano, nei panni del disincantato e deliziosamente cinico e saggio professor Fiorito, insegnante di storia dell'arte, che è su un'altra galassia rispetto al resto del cast. La scuola rimane lì, come un corpo estraneo, una cosa senz'anima di cui nessuno sa che farsene. Poca roba. Troppo poca per meritare una sufficienza.

mercoledì 26 settembre 2012

L'omunculpop

"Quand la merda la munta a scann o la spüssa o la fa dann": è questo un antico e saggio detto milanese che viene in mente di fronte alla grottesca citazione in giudizio civile, con una richiesta di risarcimento danni di 50 mila euro, di Vincenzo Ostuni, editor della casa editrice Ponte alle Grazie e poeta, da parte di Gianrico Carofiglio, ex magistrato divenuto noto al pubblico come scrittore di successo ed eletto, su questa scia, senatore del PD. Ostuni, che era stato l'editor di "Qualcosa di scritto" di Emanuele Trevi, arrivato secondo dietro a "Inseparabili" di Alessandro Piperno al recente "Premio Strega", aveva osato definire, sulla sua pagina Facebook , "Il silenzio dell'onda", di Carofiglio, terzo classificato, "un libro letterariamente inesistente, scritto con i piedi da uno scribacchino mestierante, senza un'idea, senza un'ombra di 'responsabilità dello stile', per dirla con Roland Barthes". Ancora meno tenero era stato con Piperno, ma tant'è, l'onorevole scrittore se l'è legata al dito e ha perso, a dir poco, il senso della misura nonché dell'opportunità, a dimostrazione che scalare le vette della notorietà e del potere è causa di deliri di onnipotenza, con annessa convinzione che tutto sia dovuto meno le critiche. Lo stesso atteggiamento che del resto ha la casta politica al gran completo, a cominciare dal capo in testa, il Presidente della Repubblica, fino ai Formigoni e alle Polverini. Eppure qui si tratta semplicemente di un giudizio puramente letterario, a cui Carofiglio, che finora era risultato essere una persona equilibrata e di buon senso, aveva tutti i mezzi e gli argomenti per rispondere adeguatamente, e invece si passa a un'azione giudiziaria per una frase critica, e se la intraprende un ex magistrato, parlamentare nonché intellettuale, tanto vale tornare alla censura preventiva e al Minculpop.  Ormai è chiaro a chiunque che quando si sale in alto e ci si abitua all'elogio compiaciuto, generalizzato e ipocrita si perde il senso della realtà e dei propri limiti, ma la sindrome dell'egolatria, che colpisce qualunque di questi personaggi, diventa particolarmente molesta nei sedicenti intellettuali "progressisti". Che assaliti da arroganza e spocchia finiscono, come Carofiglio e tanti altri prima di lui, col rivelare tutta la loro pochezza di omenicchi.

domenica 23 settembre 2012

I "primati" di Renzi


"In mancanza di tigri, le scimmie si ergono a tali, ma rimangono scimmie" (proverbio cinese). Impara, bamboccio.

giovedì 20 settembre 2012

E' stato il figlio

"E' stato il figlio" di Daniele Ciprì. Con Toni Servillo, Giselda Volodi,  Aurora Quattrocchi, Benedetto Ranelli, Alfredo Castro, Fabrizio Falco, Piergiorgio Belloccchio, Piero Misuraca, Giacomo Civiletti, Alessia Zammiti. ITA 2012 ★★★★
Se Bella Addormentata era una pellicola "troppo italiana" per meritare uno straccio di premio alla 69ª edizione del Festival del cinema di Venezia, stupisce che per questo film assolutamente palermitano, e recitato in dialetto strettissimo tanto da richiedere spesso i sottotitoli, Daniele Ciprì abbia ricevuto un riconoscimento. Non per la cruda e grottesca storia narrata in maniera esemplare, va da sé, ma per un fantomatico "contributo tecnico". In realtà il tema dell'avidità e della miseria umana è universale, tantopiù al giorno in un mondo votato al consumo compulsivo e all'apparenza, e il regista palermitano lo fa ispirandosi alle pagine di Roberto Alajmo e ambientando la vicenda in qualche punto imprecisato degli anni Settanta, a giudicare dall'arredo, sia urbano sia degli interni, dai vestiti e dalle auto, in una squallida e malsana periferia palermitana ricostruita però a Brindisi (e tanto simile al famigerato quartiere Tamburi della vicina Taranto avvelenata dall'Ilva). A narrarla, in flash back, è lo stralunato Busu, che ama intrattenere il pubblico in attesa del turno in un ufficio postale raccontando storie, tra cui questa di Nicola, ucciso "ufficialmente" dal figlio. In realtà era stato il cugino a farlo secco, dopo che Nicola aveva bastonato a sangue i due ragazzi che avevano osato fare un graffietto alla Mercedes che era non solo il suo orgoglio, ma la sua vita. Una fiammante Mercedes superaccessoriata, unica proprietà di un disgraziato commerciante in ferraglia, comprata con quel che è rimasto del risarcimento ricevuto, dopo un'interminabile procedura burocratica, dallo Stato per le "vittime di mafia" in seguito all'uccisione dell'adorata figlioletta Serenella, colpita in realtà per errore da due sicari che avevano sbagliato bersaglio: il suggerimento di farlo passare per un delitto di mafia è dell'amico Giovanni, una specie di Wolf di borgata che "risolve problemi", conosce la gente giusta, tra cui gli strozzini che "finanziano"Nicola in attesa che il risarcimento si concretizzi, ha gli "agganci". E' il ritratto grottesco ma verosimile di un'umanità disastrata dalla stupidità perfettamente in linea con il degradato ambiente circostante, resa con colori sferzanti e crudi sotto un perenne sole abbacinante, con attori bravissimi, più che mai espressivi e intensi. Un pugno nello stomaco salutare, una sveglia di cui si ha bisogno, e non ultimo un film che dice di più di una mentalità mafiosa più di tanti altri che di mafia parlano esplicitamente: la scena della decisione di  addossare la colpa dell'omicidio di Nicola al debole, introverso e disoccupato figlio Tancredi invece che al cugino trafficone, che in cambio si impegna a mantenere tutta la famiglia, è semplicemente un capolavoro (e Aurora Quattrocchi nei panni della nonna meriterebbe un Oscar) e da sola vale tutto il film, che comunque è da vedere assolutamente.

mercoledì 19 settembre 2012

Call Girls

Non sono mai stato un grande estimatore di Vauro, e meno che mai del giornale su cui pubblica le sue vignette, il Manifesto, che da decenni sopravvive di carità pubblica a dispetto della mancanza di lettori, ma ho apprezzato molto quella apparsa domenica e che ha scatenato non soltanto le ire del ministro Lafornero, ma anche del coro pressoché unanime della stampa nostrana, che in nome del "politicamente corretto" la taccia di volgarità e maschilismo. Per una volta concordo con il "quotidiano comunista". Ci mancava anche la solidarietà di genere, da parte di questi ipocriti benpensanti, che dopo aver dedicato pagine alle tette di Kate Middleton e alla liceità della pubblicazione delle relative foto, si scandalizzano perché un vignettista ritrae Lafornero agghindata da attempata call girl in attesa della telefonata di Marchionne (frase peraltro pronunciata da lei). La stessa pruderie che coglie le vecchie lenze del pettegolezzo quando escogitano il termine "olgettine" per definire il giro di puttane gestito e organizzato per Berlusconi dalla maîtresse Nicole Minetti, lei stessa del mestiere (ma la chiamano consigliera regionale o tutt'al più igienista dentale del Presidente) o quando usano l'eufemismo escort intendendo le mignotte. Probabilmente perché alla categoria appartengono in buona parte anche i pennivendoli di regime e di complemento, la cui vocazione non è dire le cose come stanno ma fare la voce del padrone. Che in Italia, da più di un secolo, è la FIAT. E' di Valletta, l'antesignano di Minchionne, la frase che "Ciò che è bene per la FIAT è bene per l'Italia", ed è per questo che a bordo delle scalcagnate macchine torinesi siamo entrati in due guerre, abbiamo asfaltato il Paese per motorizzarlo, lo Stato l'ha finanziata incessantemente incentivandola in ogni modo, appianandone i debiti, favorendola senza ritegno col creare una situazione di monopolio che le consentisse di vendere dei prodotti scadenti, che infatti all'estero avevano ben poco successo, a giudicare dall'inappellabile responso del "mercato". Ma guai a dire che la FIAT costruisce macchine di merda e che la sua dirigenza e proprietà è discutibile quando non truffaldina: non si deve criticare la Real Casa, e infatti per decenni ci hanno propinato il mito dell'Avvocato con la A maiuscola, un bagonghi con le basette, così pirla che portava l'orologio sopra il polsino, che per tre quarti della sua vita ha fatto il viveur, un burino che passava per raffinato solo perché parlava con la erre moscia e faceva battute da cicisbeo. Vale per la FIAT quel che vale per la Juventus nel calcio, che è metafora della realtà. Non a caso la squadra in maglia optical, che della FIAT è emanazione, ha da sempre smaramaldeggiato in Italia, dove tutto può, costruendo una buona metà delle sue vittorie sulla truffa e l'intimidazione nel silenzio connivente di gran parte dei media asserviti, e appena mette in naso fuori dai confini viene irrimediabilmente ridimensionata. Non per niente è da sempre chiamata "la vecchia bagascia" dalla stragrande maggioranza degli italiani che non sopporta la sua arroganza. Ma siccome bisogna compiacere i conformisti e i sepolcri imbiancati, non bisogna dire le cose come stanno e meno che mai prendere per i fondelli l'Autorità: che si chiami Lafornero o Napolitano, è sempre Lesa Maestà.

martedì 18 settembre 2012

Prometheus

"Prometheus" di Ridley Scott. Con Noomi Rapace, Michael Fassbender, Guy Pearce, Idris Elba, Charlize Theron, Logan Marshall-Green, Kate Dickie. USA, GB 2012 ★★½ Macchè prequel e sequel: con Ridley Scott quando si tratta di fantascienza l'è semper quel. Se volete fare il pieno di sensazioni visive, atmosfere inquietanti e grandiose, effetti speciali usati con maestria è il film che fa per voi: prendete Alien, un pizzico di Blade Runner, una mano sicura dietro alla cinepresa che miscela con maestria il tutto e siete serviti. Però nemmeno Ridley Scott riesce a ricavare un racconto appassionante da una sceneggiatura approssimativa e claudicante né a fare recitare in maniera convincente un cast di attori mediocri e non si capisce per quale motivo famosi, se si eccettua Michael Fassbender, perfettamente nella parte del replicante, e non è una battuta, mentre l'aliena sembra Charlize Theron, e forse non è un caso che David, il robot, le chieda se anche lei è un automa: secondo me era una battuta autentica di Fassbender alla bionda sudafricana dall'aspetto bionico e l'espressività di una mummia, lasciata lì maliziosamente dal maestro inglese in fase di montaggio. Irritante e assai poco attraente Noomi Rapace, neanche una pallida ombra della Sigourney Weaver eroina di Alien, a cui peraltro non arriverebbe nemmeno all'ombelico; Guy Pearce, il collega e fidanzato della devota Rapace, è semplicemente ridicolo. Insomma: fantascienza pura, spettacolare ma questa volta a Ridley Scott non riesce l'impresa di far entrare la pellicola nel mito. 

sabato 15 settembre 2012

Pietà

"Pietà" (Pieta)  di Kim Ki-Duk. Con Lee Jung-Jin, Jo Min-Su. Corea del sud, 2012 
Nomen omen, verrebbe voglia di dire, se non fosse per la bravura degli interpreti questa osannata pellicola a mio parere è prossima al livello di "vaccata invereconda".  Un film che fa pietà, quello che ha vinto il "Leone d'Oro" alla 69ª edizione del Festival di Venezia appena concluso. Torbido, malsano, morboso, frutto delle turbe mentali del regista, delle cui origini ci si può facilmente fare un'idea nell'arco dell'ora e tre quarti che dura la proiezione. Keng-do opera nel settore "recupero crediti" di uno strozzino in un degradato quartiere di piccole officine meccaniche in una grande e squallida città coreana. Lo fa da vero malvagio, azzoppando e mutilando chi non può pagare interessi del 1000% in tre mesi per intascarne il danaro dall'assicurazione contro gli infortuni. La madre di uno di questi disgraziati che, disperato, si è impiccato si vendica, appalesandosi a questo grandissimo figlio di puttana come la madre che non ha mai avuto. Facendogli sentire il calore di una famiglia che gli è sempre mancato lo rende affettivamente dipendente redimendolo ma a questo punto scatta la trappola e si uccide. Fine del film, tra alti lai, lacrime, sporcizia. Morale: 1) l'amore della mamma è più forte di ogni cosa e rimedia tutto (detto altrimenti: la mamma è sempre una santa, anzi: una Madonna: chi nasce senza rischia di diventare, per l'appunto, un figlio di puttana); 2) ogni scarrafone è bello a mamma sua; 3) il denaro è lo sterco del diavolo. Si sa che il regista ha avuto problemi psichici di varia natura: spiacenti per lui, ma non si vede perché, oltre produrgli delle pellicole, permettendogli di rendere di dominio pubblico le proprie tare mentali, occorra anche premiarlo a conclusione di quello che un tempo era il più prestigioso festival del cinema italiano. Viene in mente un altro film di merda visto nella stagione scorsa e tanto osannato: "La guerra è dichiarata". Questo non è altrettanto inguardabile, ma ci andiamo vicino. L'unica stellina "al merito" che assegno è dovuta alla bravura degli interpreti, con una Jo Min-Su da Oscar. Per il resto penoso, malsano e incestuoso.

venerdì 14 settembre 2012

Monsieur Lazhar

"Monsieur Lazhar" (Bachir Lazhar) di Philippe Felardeau. Con Fellag, Sophie Nelisse, Brigitte Poupart, Danielle Proulx, Jules Philp, Emilen Néron. Canada 2011 ★★★
Un film senza fronzoli, sincero, che fa della semplicità il suo punto di forza riuscendo ad affrontare il tema della perdita e dell'elaborazione nel rapporto tra adulti e bambini sia a livello personale sia all'interno del rapporto educativo, in questo caso tra insegnanti e giovani allievi. Siamo in una sesta classe nel Québec e un nuovo insegnante, un algerino in attesa di essere riconosciuto come rifugiato politico, va a sostituire una maestra che si è appena tolta la vita nella stessa aula dove insegnava. Gli allievi sono in stato di shock e proprio a lui, che a sua volta ha perso la moglie e le due figlie in una rappresaglia da parte dei terroristi. Per ottenere quel posto presenta false credenziali, lui stesso si improvvisa insegnante (in realtà gestiva un ristorane, maestra era sua moglie) ma alla fine riesce a entrare talmente in sintonia coi ragazzi da riuscire laddove non sono riusciti gli psicologi e i metodi di insegnamento moderni che escludono qualsiasi contatto fisico: uno scappellotto o un abbraccio, anche se visto come "scorretto", possono valere molto di più di tante strampalate teorie didattiche e psicologiche, perché c'è un riconoscimento reciproco tra lui, che è anche un "diverso", e i suoi allievi, e un percorso simile di sgomento, senso di colpa, timore di fronte a una perdita. Alla fine il suo status di rifugiato verrà riconosciuto ma anche scoperta l'inconsistenza del suo curriculum, quel che rimane è un profondo affetto verso i suoi allievi, in particolare con Alice, interpretata in maniera strepitosa dalla piccola Sophie Nelisse, e un nsegnamento che va al di là delle "regole canoniche", che il buon senso vorrebbe fosse applicate con meno rigidità. Temi delicati,che il cinema raramente affronta, come anche quello delle famiglie spesso assenti nel ruolo educativo (ma che poi si lamentano sequestro ruolo viene preso dai maestri, che dovrebbero limitarsi a fornire nozioni, e qui vengono in mente i "tecnici" che ci governano così come una medicina che a forza di specializzarsi cura la malattia ma non la persona, che non riesce più a concepire nella sua interezza), raccontati con onestà e senza pietismi e leziosità. Istruttivo, senza essere mai pedante, prevenuto e "pedagogico".

mercoledì 12 settembre 2012

Piccoli equivoci di una qualche importanza



Chi è Mario Monti? Un burattino al servizio di.. di Luna0Noire

Video vecchio fa buon brodo... Tanto per rinfrescare la memoria. Dopo aver letto ieri il post dell'amica Rossana e riletto oggi il magistrale pezzo del Premio Nobel per l'Economia Paul Krugman uscito qualche mese fa sul New York Times, "L'agenda dell'austerità" qui in traduzione italiana, mi è inevitabile giungere alla conclusione che chi si ostina a criticare Mario Monti perché il suo governo non è stato in grado di affrontare la crisi economica che affligge il Paese da almeno quattro anni sia un autentico cretino oppure in malafede. Non è mai stato questo il compito di questo Governo Tecnico, che infatti "ha già riscritto il campo di gioco, imposto nuove regole, altre le imporrà nei prossimi mesi, imponendosi come un vero e proprio governo costituente, paragonabile a quelli di De Gasperi per gli effetti di lunga durata", come scrive Rudi Ghedini in un post che condivido in pieno. La crisi l'ha anzi aggravata, e lo afferma lui stesso, peraltro ribadendo quanto già espresso qualche tempo fa in una conferenza stampa opportunamente relegata nel dimenticatoio dai media compiacenti in compatta schiera, ma che si può ancora trovare in rete. Insomma la crisi come opportunità per attuare tutte quelle "riforme" e adattamenti graditi ai "mercati" perché necessari alla "globalizzazione" e al completo asservimento a un nuovo ordine finanziario mondiale, nell'ottica tutt'altro che malata, ma distorta e malvagia, dei pupari che manovrano questa marionetta. In realtà Mario Monti sta centrando tutti i suoi obiettivi, e lo fa con l'appoggio pressoché completo di un Parlamento in cui mai un governo della Repubblica ha avuto un consenso così ampio, e non a caso ha ricevuto il plauso dei suoi amici banchieri al recente "Workshop Ambrosetti", annuale rimpatriata di fine estate puntuale come il Meeting di CL a Rimini e le Feste della fu Unità del PD post PCI+DC. Un successo che ha sei mesi di tempo per incrementare da qui alla scadenza della legislatura e che non ha mai avuto nessun politico dal dopoguerra in qua: non per niente è un "tecnico". Così bravo che bisognerebbe non solo bissarlo ma duplicarlo: un Monti per Palazzo Chigi e uno per il Quirinale. Trattandosi di un replicante non dovrebbe essere difficile.

lunedì 10 settembre 2012

Bella addormentata

"Bella addormentata" di Marco Bellocchio. Con Toni Servillo, Alba Rohrwacher, Michele Riondino, Fabrizio Falco, Maya Sansa, Pergriorgio Bellocchio, Isabelle Huppert, Gianmarco Tognazzi, Brenno Placido, Roberto Herlitzka. Italia 2012 ★★★★★
Per quel niente che può significare, assegno il massimo dei voti a questo intenso, onesto emozionante, rigoroso film di una autentico maestro e autore di cinema civile come Marco Bellocchio, pur non essendo un capolavoro assoluto, per rimarcare la mia profonda incazzatura nei confronti della giuria del Festival di Venezia che anche quest'anno si è ostinata a non voler premiare un film italiano benché ce ne fossero in gara almeno due di molto validi assegnando piuttosto la vittoria all'ennesimo film esotico, tra l'altro giudicato da chi lo ha visto assolutamente mediocre. Del resto ancora una volta si è nominato presidente della giuria un americano, per di più un regista essenzialmente televisivo come Michael Mann, i cui gusti erano facilmente immaginabili in base alla sua filmografia, pertanto lontani sia dalla sensibilità sia dalla realtà europea, di cui questo yankee arrogante quanto imbecille (come ha dimostrato nella cerimonia finale sbagliando perfino a consegnare i premi) non ha la minima idea. Nel più importante, per quanto ormai poco prestigioso, festival italiano, gli unici riconoscimenti "nazionali" sono stati a Daniele Ciprì "per il contributo tecnico", e a Fabrizio Falco come giovane esordiente (che ha brevi ruoli sia nel film di Ciprì, "E' stato il figlio", sia in quello di Bellocchio), il che suona come una presa per il culo. "Avanti così, facciamoci del male", come ebbe a dire Nanni Moretti. Alle voci che motivavano il mancato riconoscimento al suo film con il fatto di essere "troppo italiano" e quindi autoreferenziale ha risposto il regista piacentino in un'intervista apparsa oggi sul Corriere della Sera definendole giustamente delle idiozie. Tornando a "Bella addormentata", Bellocchio ripercorre i sei giorni dal 3 al 9 febbraio del 2009 attorno alla morte di Eluana Englaro. Lo fa senza giudicare, lasciando da un lato parlare le immagini televisive di quei giorni (con le deliranti e vergognose affermazioni di alcuni personaggi di primo piano che è bene scolpire nella memoria) che hanno diviso non solo il Paese come sempre in due fazioni contrapposte, ma anche le singole coscienze su temi come il fin di vita e la libertà di scelta che sono quanto di più umano e intimo ci possa essere. Lo fa con profonda onestà pur essendo una lucida coscienza laica, mostrando l'impatto che il caso Englaro ha su tre vicende parallele ed emblematiche che coinvolgono personaggi diversissimi tra loro. A ben vedere le "belle addormentate" del film sono tre, oltre a Eluana che rimane sullo sfondo: la moglie cattolica di un senatore laico del Pdl (il quale, in crisi di coscienza, si rifiuta di votare secondo le indicazioni di partito) che gli chiese di aiutarla a morire; Rosa, la figlia in come vigile di una ex attrice, interpretata da una quanto mai nevrotica Isabelle Huppert, che ha rinunciato non solo alla carriera ma anche a qualsiasi vita propria, a cominciare dal rapporto con marito e figlio, nella speranza folle di un "miracolo"; infine una tossicomame, Rossa (una Maya Sansa a mio parere straordinaria), che invece vuole mettere fine volontariamente alla propria esistenza ma trova un medico che non solo glielo impedisce (Piergiorgio Bellocchio) ma che riesce a vedere in lei la persona prima ancora del malato e a comunicarglielo nel corso di un colloquio, non solo a parole, mozzafiato. Una storia emblematica, che muove corde profonde, raccontata in modo esemplare, che non può che far riflettere: perché è di umanità che parla, questo film, e della incapacità che sembra dominante non solo di dare un senso alla parola amore ma anche solo di pronunciarla.

domenica 9 settembre 2012

Il trionfo dei bigoli in salsa


«Con un reddito base la gente si adagerebbe, si sederebbe e mangerebbe pasta al pomodoro»: questa la risposta che il ministro del Welfare Lafornero diede qualche tempo fa a un gruppo di precarie che le chiedevano cosa pensasse dell'introduzione di un salario minimo garantito. Ma quale pasta al pomodoro: a noi basta il bigolo in salsa, piatto povero, altamente nutriente, di facile esecuzione oltre che delizioso al palato. Resistenziale per definizione, non richiede pomodoro: i veneziani già lo conoscevano quando si rifugiarono in Laguna per scampare alle invasioni dei barbari dovendo accontentarsi di quel poco che riuscivano a reperire sulle isole, ben prima che Colombo portasse piante sconosciute in Europa dal Nuovo Mondo. 
Ecco dunque una semplice e gustosa ricetta per una sopravvivenza di lungo corso a prezzi irrisori. 
Occorrente per 4 persone:
un pacco da 500 gr. di bigoli mori (noti quelli "de Bassan")
- un paio di cipolle gialle di media grandezza
- almeno una quindicina di alici sotto sale
- olio (extravergine d'oliva: è l'unico tocco di lusso)
- pepe
Esecuzione:
mentre si porta a bollore l'acqua (salata) in cui metterete a cuocere i bigoli, deliscate le alici sotto l'acqua, ricavandone dei filetti che risciacquerete e asciugherete su della carta da cucina; affettate le cipolle molto sottilmente e fatele appassire nell'olio rimestando affinché si mantengano morbide e incorporatevi i filetti di acciuga che avrete nel frattempo grossolanamente sminuzzato. Nel giro di pochi minuti ne risulterà una salsa in cui le acciughe si saranno sciolte e incorporate alle cipolle completamente ammorbidite. Quando i bigoli saranno cotti (11 o 12 minuti secondo le indicazioni), scolateli e versateli nella padella dove avete preparato la salsa mescolando con vigore a fuoco vivo, avendo cura di amalgamare il tutto. Lasciate risposare qualche minuto e, prima di servire, rimescolate versando ancora un paio di cucchiai d'olio. Ultimo tocco, un'abbondante macinata di pepe.
N.B.: nel caso aveste già preparato i filetti di acciughe e affettato le cipolle, il tempo di preparazione della salsa è più o meno uguale a quello di cottura dei bigoli.

Lafornero al pomodoro passerà, il bigolo in salsa è immortale!

sabato 8 settembre 2012

Il cavaliere oscuro / Il ritorno

"Il cavaliere oscuro / Il ritorno"(The Dark Knight Rises) di Christopher Nolan. Con Christian Bale, Michael Caine, Anne Hathaway, Gary Olman, Tom Hardy, Morgan Freeman, Marion Cotillard, Joseph Gordon Levitt. GB, USA 2012 ★★★★
Non delude, il film che chiude la trilogia dedicata a Batman, all'altezza, per tensione e spettacolarità, di quello che aveva come il Joker interpretato da Heath Ledger. Se possibile, il regista di tutta la serie, Christopher Nolan, ha reso il tutto ancora più cupo, scavando nella psiche di un supereroe sempre più umano e l'avversario, il cattivo di turno, umano anche lui e con ottime motivazioni per essere infuriato con Gotham City, identificata come il regno della corruzione e della finanza onnipotente che tende a schiavizzare l'umanità. E' una New York mica tanto lontana dalla realtà, quella che si vede nel film, che vive nel ricordo di Harvey Dent, il procuratore distrettuale che ha assunto dimensioni mitiche grazie al fatto che Batman si è preso la responsabilità della sua morte otto anni prima, impedendo che ne venissero diffusi e dettagli e sparendo dalla circolazione. Perché la città ha bisogno, appunto di credere in un eroe, e da allora vive in una pace relativa finché non arriva sulla scena Bane, la cui maschera antidolorifica che ne rende semi meccanica la voce lo rende ancora più inquietante, e le sue azioni terroristiche la rigettano nel caos. Come prima cosa assalta Wall Street occupando la Borsa, poi manda in rovina la società di Bruce Wayne-Batman, che da otto anni vive relegato in casa, acciaccato, demotivato e sconfitto, infiltrandola di suoi scagnozzi e la sua socia segreta, di cui Wayne non si fida al punto di iniziare una relazione con lei; infine si appropria di un reattore nucleare destinato alla produzione di energia pulita riconvertendolo in un letale ordigno atomico. Toccherà a Wayne rientrare in scena sotto le sembianze dell'uomo pipistrello, alleato a una specie di Cat-Woman bene interpretata da una maliziosamente graziosa Anne Hataway, e salvare ancora una volta Gotham City, e ci riuscirà per un pelo con l'aiuto del futuro Robin. Regista inglese, come una buona metà del cast, per un film solo parzialmente "americano", il cui "happy end" lascia l'amaro in bocca e l'accenno a qualche riflessione su un sistema marcio, che non può andare avanti all'infinito.. Bravi tutti gli interpreti, lascia perplessi la scelta della sopravvalutata e onnipresente Marion Cotillard, l'attrice specializzata in sguardi bovini grazie ai suoi strabici occhioni a palla. Impagabili le scene dell'assalto allo "Stock Exchange" e dello sprofondamento del campo da baseball, dopo successive esplosioni, davanti a un pubblico basito quanto rincoglionito dopo la patetica esecuzione dell'inno nazionale a cappella da parte di una straziante voce bianca prima dell'inizio di una partita del gioco più cretino del mondo: scene che mi hanno dato la stessa euforia della sequenza del bombardamento di Pearl Harbourda parte dei giapponesi nell'omonimo film di Michael Bay: ogni volta che passa la pallicola in TV me la rivedo e invariabilmente mi viene da gridare "banzai"!

giovedì 6 settembre 2012

Mario Nardone e la Milano che fu

Sono anni che non vedo un programma sulla RAI (perfino la finale degli Europei tra Italia e Spagna ho preferito seguirla sul canale tedesco) e una fiction dai tempi del primo "Montalbano", ma lo farò stasera per la prima delle sei puntate su RaiUno de "Il commissario Nardone". Ancora un poliziotto, ma questa volta non uscito dalla fantasia e dall'agile penna di Andrea Camilleri bensì dalle vicende di vita vissuta di un personaggio in carne e ossa che chiunque come me abbia vissuto gli anni Sessanta e Settanta a Milano ricorda benissimo, con ammirazione e affetto. Per inquadrare epoca e personaggio, lascio la parola a Tiziano Marelli, carissimo amico, allora concittadino e cronista di razza, che ha scritto questo ottimo pezzo uscito su "Il Vostro" (quotidiano on line).


In tivù il commissario Mario Nardone
E un giallo romano degli anni Cinquanta

L'anniversario di un delitto avvenuto nella Capitale nel 1958 si intreccia con la storia dell'inventore della Squadra Mobile di Milano (il "113") che rivive nella fiction di RaiUno. Arrivato dal sud, "terroncello" l'avevano soprannominato, aveva rare qualità di investigatore

di Tiziano Marelli

In questi giorni si accavallano due date, che è possibile unire in un’unica storia. Si tratta del caso “Fenaroli-Ghiani” e della messa in onda, da parte della Rai, della serie Il Commissario Nardone, in onda su RaiUno a partire da oggi (giovedì 6 settembre.) Si tratta di una fiction di sei puntate che ripercorre le gesta per troppo tempo dimenticate di uno dei più grandi poliziotti italiani, un investigatore che fece epoca e che letteralmente “inventò” la Squadra Mobile. E che a quel lontano caso di omicidio è unito, soprattutto per un mio ricordo personale, e più avanti vedo di spiegare il perché.
LA MOGLIE, L’IMPRENDITORE E I DEBITI - La signora Maria Martirano fu uccisa a Roma, in via Monaci, la sera di mercoledì 10 settembre 1958, poco prima della mezzanotte. Il suo corpo venne ritrovato il mattino successivo dalla domestica e le indagini appurarono che si trattò di strangolamento. Dopo molto brancolare nel buio, in un paio di mesi di indagini a vuoto i sospetti si concentrarono infine sul marito, il cinquantenne Giovanni Fenaroli: nonostante il suo alibi sembrasse di ferro – lavorava a Milano, dove aveva un’impresa edile che non navigava in buone acque, e c’era chi testimoniava che non si era mosso dall’ufficio, tantomeno per tornare a Roma – si ipotizzò che a mettere in atto il delitto potesse essere stato proprio lui con la collaborazione fattiva di un complice, Raul Ghiani, un operaio elettronico di 27 anni
. Secondo gli investigatori Ghiani fu l’esecutore materiale, incaricato da Fenaroli del crimine per poter poi incassare la polizza assicurativa sulla vita della moglie e dividersela, salvando così la sua impresa da una probabile bancarotta.


IL PIANO E L’ACCUSA - Per la fantasia di quell’epoca il piano studiato da Fenaroli era tanto fantastico quanto geniale, messo in atto usando i mezzi più “moderni” a disposizione: auto, aereo e treno. In pratica, secondo l’accusa, il marito-mandante avrebbe accompagnato in tutta fretta, la sera del 10 settembre, il complice-esecutore a Malpensa sulla sua Giulietta (un particolare che contribuì a fare di quell’auto un mito) in tempo per imbarcarsi sul primo aereo disponibile (si stabilì che era quello delle 19 e 30) per la capitale, compiere l’assassinio e tornare in treno (ne partiva uno da Termini alle 0.20) giusto in tempo per ripresentarsi al lavoro il mattino dopo, puntuale alle 9. Nonostante non ci fossero certezze sulla presenza del Ghiani né sull’aereo (le liste dei passeggeri non erano quelle “blindate” di oggi, quello che era considerato l’assassino poteva aver dato un nome falso, e su questo a lungo si disquisì) né sul treno, e nonostante i tempi di percorrenza dalla città a Malpensa non fornissero nessun tipo di certezza (in quello stesso periodo, nell’impresa si cimentarono anche migliaia di cittadini, tutti potenziali e casarecci detective impegnati in cronometraggi improbabili sull’asse stradale in questione) l’impianto accusatorio resse anche al processo, nonostante i molti e corposi dubbi espressi anche in fase dibattimentale dalla difesa: Fenaroli e Ghiani vennero condannati all’ergastolo in primo grado, e la sentenza fu confermata in appello

.


INNOCENTE O COLPEVOLE? - Narrano le cronache dell’epoca che ad attendere la sentenza più di ventimila romani si accalcarono all’esterno del palazzo di Giustizia fin dalle cinque del mattino. Troppa era la voglia di “normalità” criminale dopo gli eccessi e gli orrori della guerra, e anche il processo ai due “assassini” si inquadrò in quel clima assurdo di giustizialismo “corretto”, che si lasciasse alle spalle quello che nell’immediato periodo post-bellico aveva portato alla giustizia sommaria di migliaia di avversari politici collusi con il fascismo. Il caso spaccò l’Italia nettamente in due, fra innocentisti e colpevolisti. Negli anni non mancarono teorie buone per smontare il castello d’accusa, e nemmeno altre molto più complottiste, che spaziavano dai servizi segreti all’Italcasse, ente rispetto al quale Fenaroli pare vantasse dei contenziosi e che era proprio in quegli anni al centro di diversi scandali. Ma nulla mai cambiò. Fenaroli, in silenzio, morì in carcere nel 1975, Ghiani invece ottenne la grazia dal presidente Pertini nel 1984, e da allora vive a Firenze da dove continua a ribadire la sua innocenza e a battersi per riaprire il caso. Inutilmente, finora.

IL COMMISSARIO NARDONE - Ma, come abbiamo già detto, gli innocentisti erano tanti. E uno di questi era proprio Mario Nardone, che partecipò da Milano alle indagini sull’omicidio fin dall’inizio, e fu sempre convinto che la colpevolezza dei due non fosse per niente certa. Posso dirlo perché me lo confidò, in una lunga intervista-storia della sua vita che mi concesse, e che pubblicai postuma su L’Europeo, qualche anno fa. Nardone mi disse anche di aver fatto arrivare la sua opinione “a chi di dovere”, ma che questo non sortì nulla, e fu cosa della quale si rammaricò tutta la vita. Proprio quel mio incontro, molto umano e quasi personale, con il mitico “architetto” e primo capo della Squadra Mobile (il celebre “113”, il numero di telefono del pronto intervento della Polizia, nacque da lì: altra intuizione sua) mi dicono abbia dato il via all’idea della serie di puntate che per sei settimane da adesso faranno conoscere a tutti gli italiani che grande uomo è stato il Commissario italiano per eccellenza nella realtà della sua vita, un vissuto che tutto è stato fuorché semplice fiction o invenzione di una penna, come quella splendida Simenon: il suo Maigret, anche se in epoca precedente e diversa gli somiglia molto, ma quella era davvero finzione letteraria, Nardone invece era un uomo al totale servizio dello Stato: in carne, ossa e intuito. Anzi: soprattutto intuito, che lo portò con grande e unica capacità a risolvere casi come quello di Rina Fort (un altro orrendo crimine che nel ’46 scosse vieppiù l’animo degli italiani), della banda di via Osoppo, di quella di Cavallero e Notarnicola, e di tutte le altre imprese criminali che caratterizzano Milano, dal 1946 – al suo arrivo in città dall’Irpinia, con il grado di vice commissario aggiunto e anche con tutti i preconcetti verso un superiore “terrunciello”, che diventò in fretta il suo soprannome, adottato anche in famiglia – fino agli anni Settanta inoltrati, con passaggi in successione alla guida della Criminalpol, alla Scuola di Polizia, per finire come questore a Como, quasi dimenticato se non messo ai margini, in maniera del tutto ingrata e francamente incomprensibile. Lui se ne rammaricava, e faticava a farsene una ragione.
ALTRI TEMPI, ALTRI METODI Dei nostri incontri ricordo una passeggiata dalla sua casa di via Tortona, a Milano, fin nei vicoli di porta Genova, con fermata in un bar del posto, molto cambiato rispetto a quando ci passò la prima volta; lì, era appena arrivato a Milano, vide allora un ragazzo dalla faccia poco raccomandabile che trafficava con una radio troppo “cara” per lui: Nardone lo fermò, lo portò in Questura, lo interrogò, e scoprì così un duplice omicidio. Appena arrivato in città, risolse il suo primo caso. Mi raccontò dei suoi uomini (ne incontrai alcuni, molti anni dopo quando decisi si pubblicare la sua storia, ed erano tutti personaggi straordinari), e mi fece conoscere il maresciallo Oscuri: capii subito cosa volevano dire i colleghi della nera di un tempo che, quando qualcuno “tardava” a cantare, “si chiamava l’Oscuri”, che scendeva dai suoi uffici e in men che non si dica l’atteggiamento del sospettato cambiava. Successe che al nostro incontro mi strinse la mano, Oscuri, e capii che a quelle manone, se calate su una faccia, era difficile continuare a negare qualcosa. Altri tempi, altri metodi, ma in fondo la lotta fra “le parti” era qualcosa che più che sfiorava il reciproco rispetto. Tant’è che Nardone, a Natale, andava in carcere a trovare chi lui stesso ce lo aveva mandato, e non mancava di presentarsi con spumante e panettone. Un po’ per consolare, ma anche per capire se poi, all’uscita da San Vittore, poteva magari contare su qualche nuovo collaboratore: un elenco segretissimo e prolifico in termini di risultati, uomini che solo lui conosceva e incontrava, nei modi più rocamboleschi. Secondo lui, vinta la lotta con un delinquente, poi non deve mancare il rispetto.
LA RICONOSCENZA POSTUMA - Rispetto, senso delle istituzioni, totale dedizione alla Giustizia e ai suoi valori: sono questi i cardini del “pensiero” professionale di Mario Nardone, che è scomparso all’inizio del mese di luglio del 1986 senza avere la soddisfazione di sentirsi ripagato, nemmeno simbolicamente, per tutto quello che aveva fatto a una città come Milano e alla sua Italia, i punti di riferimento non solo simbolici ai quali aveva dedicato tutta la sua vita. Spero con tutto il cuore che la serie televisiva possa rendergli merito nel migliore dei modi. Sono stato alla presentazione alla stampa dell’evento, e le immagini della prima puntata che ho visto mi fanno pensare che la sua figura ne uscirà bene, e sarà finalmente ricordato nella sua giusta e genuina luce. Un po’ troppo in ritardo, forse, ma la pazienza è la virtù dei forti, e ne aveva tanta anche lui, di pazienza, certo – come sono sicuro che fosse – che prima o poi la verità sarebbe venuta a galla: visto che finalmente riguarda lui, si tratta di una verità assolutamente disvelata per quello che doveva essere, oltre che finalmente del tutto meritata e dovuta.

mercoledì 5 settembre 2012

La faida

"La faida" (The Forgiveness of Blood) di Joshua Marston. Con Tristan Halilaj, Sindi Laçei, Refet Abazi, Cun Lajçi, llire Vinca Cilai, Zana Hasaj. USA, Albania, Italia, Danimarca 2011 ★★★★
A sette anni del grande successo ottenuto con "Maria Full of Grace" torna in pista il regista californiano Joshua Marston e lo fa con un bel film che è albanese per la ambientazione, storia e interpreti, uno più bravo dell'altro. In un paesino di campagna nel Nord-Ovest dell'Albania, vicino a Scutari, per una questione di diritti di passaggio su una proprietà gli uomini di due famiglie confinanti vengono a conflitto e ci scappa il morto. Il padre di Nik, all'ultimo anno di superiori e che progetta ddi aprire un internet café, scappa, mentre lo zio finisce in galera. Secondo il "kanun", le legge non scritta in vigore dal medioevo (in Italia quello che si chiama "codice d'onore"), la famiglia rivale ha diritto ad uccidere un giglio maschio, per cui Nik e il fratello minore finiscono blindati in casa e l'attività di famiglia, consistente nella vendita di pane e altre derrate porta a porta per mezzo di un carretto trainato dal fedele cavallo Krizman, viene presa in mano dalla diligente e matura Rudina, quindicenne studentessa che sogna di fare l'università, mentre la madre lavora già di suo in una fabbrica. Oltre che concentrarsi sul tema, caro al regista sceneggiatore, dell'infanzia e della gioventù negata, il film rende in maniera estremamente efficace sia il momento di cambiamento che sta attraversando la tradizionale società albanese, con una gioventù pienamente connessa col mondo esterno e per nulla diversa da quella nostrana, sia l'eterno, e doveroso contrasto con la figura genitoriale che inevitabilmente, e giustamente, ne segna la crescita. La pellicola lo fa senza dare giudizi ma al contempo seguendo con affetto e partecipazione ciò che si muove nella testa e nelle viscere dei ragazzi, che troveranno il modo, anche se pieno di sofferenza, per uscire dalla trappola di regole ancestrali (ma che covano pur sempre nel sottofondo anche delle società "moderne", con la differenza che non riusciamo più a riconoscerle) ma anche di crescere. Lo farà Nik, dopo aver affrontato i maschi della famiglia rivale ed essersi offerto come vittima volontaria pur di uscire da una situazione claustrofibica e guadagnare la sua libertà, ottenendo una tregua di 24 ore, una sorta di salvacondotto temporale per andarsene per sempre dal paese sottraendosi così alla faida, e lo farà dopo un conciliabolo con la famiglia, padre compreso, e su incitamento di Rudina, il personaggio più vero e riuscito della pellicola. Un film che chiede e ottiene partecipazione e che ricambia con emozioni. Da vedere.

martedì 4 settembre 2012

El campo

"El campo" di Hernán Balón. Con Dolores Fonzi, Leonardo Sbaraglia, Juan Villegas, Pochi Ducasse, Matilda Manzano. Argentina, Italia 2011 ★★★ ½
"Scene da un matrimonio argentino", ossia psicopatologia di coppia: questa la sostanza della pellicola d'esordio del documentarista Hernán Balón anche se le vesti, all'apparenza, sono del film gotico con ammiccamenti all'horror, quantomeno per l'ambientazione. La casa colonica in mezzo alla Pampa presa in affitto come residenza estiva da una giovane coppia porteña con una figlioletta di un anno, è l'inquietante protagonista, per certi versi, della pellicola. I due vi vanno d'inverno, con l'intenzione di farvi alcuni lavori di sistemazione e manutenzione, ma la casa con la sua fatiscenza, i suoi scricchiolii, i tubi che perdono, le apparizioni di personaggi inconsueti per  i due "animali metropolitani" (soprattutto Elisa, una nevrotica di prima categoria, interpretata da una bravissima Dolores Fonzi), e la casa diviene il teatro per lo scatenamento delle universali dinamiche di una coppia incapace di comunicare, salvo che col sesso, che diventa l'unico terreno di incontro. Non che non parlino, anzi: semplicemente non si capiscono, le loro aspirazioni non possono che essere divergenti e l'atteggiamento contrastante verso questa casa e verso la campagna in generale non fa che confermarlo. Preferiranno tornare quanto prima a Buenos Aires (non a caso una delle città al mondo col maggior numero di persone in trattamento psicoterapeutico, con percentuali maggiori perfino di New York) per mettere la sordina a tutto, andare avanti a non ascoltarsi, cercare un palliativo nel lavoro, nella pseudo vita sociale, scopando e mettendo magari al mondo un altro essere da rendere infelice scaricandogli addosso le proprie frustrazioni e irresolutezze. Un film molto argentino, o almeno appartenente a uno dei filoni del cinema del nostro Paese cugino, e un ritratto impietoso e veritiero di ciò che per lo più è la vita di coppia, anche se non lo si vuole ammettere, soprattutto a sé stessi.

domenica 2 settembre 2012

Hans Magnus Enzensberger: impressioni di settembre

Dal n° 36 de L'Espresso, "Quante bugie in nome della crisi", considerazioni di Hans Magnus Enzensberger che oltre essere un piacere leggere, meritano una riflessione.

Crisi? Ma quale crisi! I caffè, i ristoranti, i bar sono strapieni. Negli aereoporti si accalcano i turisti. Ovunque si sente parlare di fatturati record nelle esportazioni e della disoccupazione che diminuisce. Come se la realtà dell'Unione europea sia davvero quel che ne dice la tv. Con i telespettatori che seguono ormai sbadigliando gli ultimi vertici scalati, settimana dopo settimana, dai politici, e le sempre più confuse diatribe degli esperti di turno. E tutto ciò sembra aver luogo in una retorica "terra di nessuno" piena zeppa di incomprensibili formule linguistiche, che con i cosiddetti mondi della nostra vita quotidiana non hanno proprio più nulla a che fare. Evidentemente, non sorprende più nessuno che, da un bel po' di tempo in qua, i Paesi europei non sono più governati da istituzioni legittimamente democratiche. Ma da tutta una serie di sigle che ne hanno preso il posto. Sono sigle come Efsf, Efsm, Bce, Eba o Fmi che ormai determinano qui in Europa il corso degli eventi. Solo alcuni esperti sono m grado di decrittare tutti questi acronimi. D'altronde, anche chi, come e che cosa si decide all'interno della Commissione europea o nella Eurozona sono solo degli adepti ad intuirlo. Quel che tutte queste istituzioni e decisioni hanno in comune è di non esser previste in nessuna costituzione del mondo. E che nessuno di noi normali elettori può mai esprimere la sua riguardo alle loro decisioni. Un unico vero attore a cui queste istituzioni prestano ancora ascolto sono i cosiddetti "mercati", il cui potere si esprime nelle oscillazioni dei tassi d'interesse e dei corsi delle valute come nei rating di alcune agenzie americane. Ha qualcosa di fantomatico la quiete con cui gli abitanti del nostro piccolo Continente hanno accettato la loro espropriazione politica. Probabilmente ciò dipende dal fatto che si tratta di una vera e propria novità storica. A differenza delle precedenti rivoluzioni, dei colpi di Stato o dei putsch militari, di cui la storia d'Europa è ricca, oggi la nostra realtà procede senza schiamazzi di sorta e priva d'ogni violenza. E proprio qui sta l'originalità della nuova conquista del potere: è avvenuta in Europa senza fiaccolate, senza marce, senza issare barricate, e senza l'uso di un panzer! Oggi, al contrario, tutto si decide, e molto pacificamente, in un qualche segreto retrobottega. Non dovrà pertanto sorprendere più di tanto se poi le norme ratificate dai Trattati non vengano minimamente rispettate. Regole sottoscritte come il "Principio di sussidianetà" nei Trattati di Roma o la clausola del "no bailout" nei Trattati di Maastricht vengono infrante a piacere. Pacta sunt servanda: questo principio risuona oggi come una frase vuota, che un qualche cavilloso giurista dell'antichità deve essersi inventato. Del tutto apertamente si proclama ad esempio, per quanto concerne i Trattati Esm (il meccanismo europeo di stabilità), la destituzione dello Stato di diritto. Solo le decisioni dei membri interni di questo "Comitato di salvezza" sono, dal punto di vista formale, immediatamente vigenti, e in ogni caso non dipendono dalla ratifica di nessun parlamento nazionale. Non per niente, come ai tempi dei vecchi regimi coloniali, questi burocrati si chiamano Governatori e, allo stesso titolo dei Direttori delle banche centrali, non sono affatto obbligati a giustificare davanti alla pubblica opinione le loro decisioni. Al contrario, loro sono espressamente vincolati al segreto. Ciò che ricorda molto il principio dell'omertà, ossia quel codice d'onore a cui la mafia ubbidisce. I nostri "Padrini" europei sono quindi oggi politici sottratti ad ogni controllo giuridico e ad ogni istanza legale. Anzi, godono ormai di un privilegio che non spetta neanche a un boss della camorra: e cioè, l'assoluta immunità giuridica. (Così almeno è scritto negli articoli 32 bis 35 del Trattato Esm). L'espropriazione politica dei cittadini europei ha in tal modo oggi raggiunto il suo apice. Il processo di espropriazione è invero iniziato molto prima, al più tardi con l'introduzione dell'euro. Questa valuta comune è il risultato di un mercimonio politico che, con la massima scioltezza, si è sbarazzato di tutti i criteri e presupposti economici. Sono state completamente ignorate tutte le diversità strutturali delle varie economie nazionali, le loro divergenti competitività così come i loro straripanti debiti sovrani. Il piano di omogeneizzare in tal modo l'Europa non ha poi prestato la benché minima attenzione alle differenze storiche tra le culture e le distinte mentalità del Vecchio Continente. Per consentire l'accesso nella Eurozona si sono dovuti inoltre, e sin dall'inizio, allentare a piacere come fossero di plastilina quei criteri economici. E li si è allargati così tanto da permetterne l'accesso anche a Paesi come la Grecia e il Portogallo. Paesi ai quali mancavano le prerogative elementari per sussistere nel consorzio monetario europeo. Del tutto incapace di ammettere o di correggere gli errori di nascita di questa costruzione monetaria, il regime dei "Salvatori" d'Europa insiste ora per proseguirne a tutti i costi il corso imboccato. La frase che loro ripetono - per cui a tal corso "non ci sono alternative" - nega il potenziale esplosivo derivante dalle differenze sempre più marcate tra le nazioni. Le conseguenze però di queste divergenze ce le abbiamo, e da anni, sotto gli occhi: più che l'integrazione aumentano in Europa le divisioni, i risentimenti, le animosità e le accuse reciproche al posto d'una più profonda comprensione tra i Paesi europei. "Se fallisce l'euro, fallisce l'Europa!". È con questo slogan assai spiritoso che si prova a convincere un Continente con mezzo miliardo d'abitanti a seguire l'avventura di una classe politica completamente isolata. Come se i duemila anni di storia precedente fossero un nonnulla al confronto d'una valuta or ora coniata. Proprio la cosiddetta "crisi dell'euro" dimostra che in realtà non c'è in gioco solo una espropriazione politica dei cittadini, ma che questa conduce logicamente al suo pendant: e cioè, all'espropriazione economica. È precisamente nel momento in cui vengono a galla i costi economici di tutta l'impresa che si capisce davvero che cosa essa significhi. La gente a Madrid, ad Atene o a Roma scende in massa a protestare per le strade, solo quando non le resta più nessun'altra scelta. E a simili proteste si arriverà senz'altro anche in altri Paesi. È del tutto indifferente ora con quali e quante metafore la politica tenti di ingioiellare le sue nuove costruzioni: uguale se li si battezzino "Ombrelli" o Bazooka, Eurobond, o Unioni fiscali, bancarie o dei debiti... Non appena emergono le nude cifre dell'impresa, ecco che i popoli si scuotono al volo dalla loro siesta politica. Perché lo intuiscono che, prima o poi, ognuno di loro dovrà pagare per quello che oggi i loro "Salvatori" stanno combinando. Il numero delle possibili vie d'uscita risulta, in questa situazione, piuttosto limitato. Il modo più semplice per liquidare i debiti, così come i nostri risparmi, resta sempre l'inflazione. Ma si possono sempre prendere in considerazione anche degli aumenti alle imposte, i tagli alle pensioni e “cut” dei debiti, come in parte sono stati praticati o messi in conto a seconda dei programmi dei vari partiti. Ci sarebbe ancora un ultimo, estremo rimedio da considerare: la riforma monetaria. E’ un metodo ben comprovato per punire il piccolo risparmiatore, risparmiando invece le banche, e depennare di colpo gli obblighi nei bilanci statali. Un'unica, semplice via d'uscita da questa trappola in ogni caso non c'è. Le varie, possibili opzioni sinora ventilate sono state tutte, e con successo, bloccate. Il discorso, ad esempio, di un'"Europa a più velocità" è risuonato invano. Clausole che prevedano una fuoriuscita dall'euro non sono mai state inserite nei Trattati. Ma è in particolare il "Principio di sussidianetà" che questa politica europea non rispetta: forse perché è un'idea sin troppo evidente per esser presa sul serio. Quel principio afferma né più né meno che in ogni comune come in ogni provincia, in ogni Stato nazionale come nelle istituzioni europee, è sempre e solo l'istanza più vicina al volere dei cittadini quella davvero vincolante. E che competenze e poteri debbano essere via via trasferite ad istituzioni superiori solo in ultima istanza, qualora cioè non sia possibile altrimenti. Ebbene, come la storia dell'Unione europea purtroppo dimostra, questo Principio è sempre rimasto lettera morta. Altrimenti l'addio alla democrazia non sarebbe avvenuto così facilmente a Bruxelles. Né l'espropriazione politica ed economica dei cittadini europei sarebbe avanzata sino ai livelli attuali. Quel che ci attende è quindi un fosco futuro? È sicuro che viviamo bei tempi per gli amanti delle catastrofi, per coloro che prevedono non solo il crollo del sistema bancario ma, con la bancarotta degli Stati più indebitati, l'imminente fine del mondo. Come per la maggior parte dei profeti dell'Apocalisse anche queste profezie appaiono leggermente avventate. I 500 milioni di europei non saranno certo tentati di lasciarsi andare senza opporre la minima resistenza. E seguendo anzi sino alla fine i mantra preferiti dei loro Salvatori: «Non c'è alternativa! », «Se falliamo noi, fallisce l'Europa!». Questo continente ha già visto, vissuto e superato conflitti ben più grandi e molto più sanguinosi dell'attuale crisi. Certo, senza costi, gravi conflitti e dolorosi tagli non vi sarà via d'uscita dal vicolo chiuso in cui i nostri Ideologi della Interdizione democratica ci hanno ficcati. Nella situazione in cui ora ci troviamo, il panico è sicuramente il peggiore dei consiglieri. E chi già adesso intona all'Europa un inno funebre non ne conosce tutte le sue potenzialità. E’ questa l’ora di ricordarsi del motto di Antonio Gramsci che invocava “il pessimismo dell’intelligenza e l'ottimismo della volontà".  (Traduzione di Stefano Vastano)