domenica 22 luglio 2012

La leggenda del Paròn


E' una mostra emozionante quella che Trieste ha dedicato nel centenario della nascita (20 maggio 1912) a Nereo Rocco, uno dei suoi figli più conosciuti e amati, instancabile ambasciatore della sua città ovunque abbia lasciato il suo segno, prima come uomo e poi come allenatore. Treviso, Padova, Milano (sponda rossonera), Torino, ancora Milano e infine Firenze le tappe della sua gloriosa carriera in panchina, cominciata nell'Union a Trieste, dove iniziò come calciatore, mezzala di ottimo livello, per giocare anche con Napoli e Padova, vantando anche un'apparizione nella nazionale azzurra di Vittorio Pozzo bicampione del Mondo. "A Milàn son el comendator Rocco, ma a Trieste resto quel mona del bècher", diceva fingendo autcommiserazione, ma a Trieste aveva continuato ad abitare, in Rion del Re, a costo di passarci soltanto il lunedì, e a Trieste era tornato l'ultima volta per morire, il 20 febbraio del 1979: l'omaggio era doveroso ed è riuscito a meraviglia, proponendo un percorso multimediale e interattivo (grazie ai preziosi filmati d'epoca di RAI Teche), con cimeli, fotografie, pannelli che raccontano la vicenda di un uomo nato ancora sotto l'Impero Absburgico quando il cognome di famiglia, stirpe di macellai di origine viennese, faceva ancora Roch ("mi son de Cecco Beppe", ricordava spesso) e che è stato l'allenatore di calcio italiano più noto, discusso ma anche vincente, benvoluto da tutti. "Mister te sarà ti, muso de mona", diceva a quelli tra i suoi giocatori che lo chiamavano all'inglese: ora il termine è inflazionato, così come sono invalsi altri neologismi insopportabilmente stupidi e vuoti macinati senza sosta dal tritacarne mediatico che ha trasformato il calcio in una sorta di variante del Pensiero Unico (come scrive oggi in un bell'articolo sulla Stampa Massimo Raffaelli, purtroppo non rintracciabile sull'edizione on line) da quella "ultima rappresentazione sacra", come la definiva Pierpaolo Pasolini, che era ancora fino all'inizio dei famigerati anni Ottanta, che per sua fortuna Rocco si è risparmiato di dover affrontare. "Mi te digo cossa far, ma in campo te va ti"; "Tuto quel che se movi su l'erba, daghe. Se xe la bala, pasiensa": queste le direttive che, tra i serio e il faceto forniva, con sano buonsenso, ai suoi giocatori, con cui condivideva tutto e curando l'aspetto psicologico del "gruppo" come nessun altro prima di lui. Pure in questo era un precursore, anche se già negli anni Cinquanta, ai tempi del Padova, gli davano del "passatista". "Mi fazo catenaccio, loro xe prudenti", celiava. Era un maestro nel far rendere al meglio le sue squadre con quel che passava il convento: dopo il Padova il suo capolavoro fu il suo "secondo Milan", quello che tra il 1968 e il 1969 vinse scudetto, Coppe delle Coppe, Coppa dei Campioni (impartendo una memorabile lezione di gioco all'emergente Ajax di Cruijf, paladino del "calcio totale") e Coppa Intercontinentale inserendo giocatori dati per finiti come Cudicini, Malatrasi e Hamrin su un telaio solido senza rinunciare a dare spazio a giovani speranze come Pierino Prati: il "difensivista" Rocco, senza che i critici glie ne dessero atto, giocava costantemente con tre punte (c'era anche Sormani), orchestrate da una mezza punta com'era un genio del calcio quale Gianni Rivera, di cui il "Paròn" fu il padre putativo. "Scopo del zogo, ostrega, xe de meter el balòn dentro la porta", ribatteva Rocco ai soloni che discettavano di schemi e teorie astruse già allora e gli davano dell'antiquato. E vinceva. Così come, seguendo sotto ogni aspetto il suo insegnamento, il suo allievo Enzo Bearzot vinse il più entusiasmante dei quattro Mondiali conquistati dalla nazionale italiana, quello del 1982 in Spagna. "Ma no i ga altri mone de darghe premi, 'sti italiani?", esclamò quando venne nominato cavaliere del lavoro per meriti sportivi già nel 1958: chissà cosa avrebbe pensato di un altro cavaliere che avrebbe involgarito in maniera quasi irrimediabile lo "Stile-Milan" liquidando, come prima mossa da presidente, proprio quel Gianni Rivera che di Rocco era il pupillo e della società era rimasto una bandiera anche nei tempi bui in cui rischiò il fallimento. Era un uomo saggio, Nereo Rocco, e il suo calcio era sano, così come sostanzialmente lo era, nonostante le crisi ricorrenti, il Paese dei suoi tempi, che ho avuto la fortuna, in parte, di aver vissuto. A cui voleva bene, oltre a rispettarlo, chiunque amasse il calcio. E che è rimasto nel ricordi di tutti, avversari compresi. Se passate a NordEst, non mancate di andare a visitare questa bella mostra, che chiuderà i battenti il 31 prossimo. 

3 commenti:

  1. se riesco ci vado. mi resta una curiosità: chissà come avrebbe commentato la mostra? mandi. s.

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  2. Ed in calce a questo pezzo mi piace ricordare e ricordarti un grande calciatore scomparso ieri: Aldo Maldera. La cosa che mi ha lasciato più stranito è stato scoprire che aveva solo due anni più di me. Io che lo avevo sempre pensato molto più grande di me. E' un altro pezzo di storia del grande Milan che se ne va. Penso che anche nei tuoi ricordi da derby tu abbia qualche immagine sua nella memoria.
    Il Segretario

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  3. Certo. Ad esempio la finale di Coppa Italia del 1977. 3 Luglio. E io lì come un pirla. Guarda che chicca che ho trovato. C'era anche Beppe Viola a fare le interviste all'intervallo: un altro che se n'è andato molto, troppo presto. http://www.youtube.com/watch?v=l-GXyANe_rs

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