giovedì 26 gennaio 2012

Monte Popa: il rifugio dei “37 nat” sull’Olimpo birmano



NYAUNG U / BAGAN - Di tutti i siti buddhisti meta di pellegrinaggio, che in Birmania sono un'infinità, quello che finora ho visto visitato con più entusiasmo da parte della popolazione locale, preso quasi d’assalto dagli stati più umili, è il Monte Popa. A un’ora e mezzo di viaggio dall’area di Bagan, attraversando la pianura di Myingyan resa fertilissima dalla cenere vulcanica e dalle frequenti piogge (vi cresce di tutto e non a caso il termine “popa” è di origine sanscrita e significa fiore) si giunge in una zona di rilievi tra cu spicca questo isolato picco roccioso alto 737 metri in cima al quale sorge un fatato complesso di monasteri, stupa e templi che mi ha fatto venire immediatamente in mente il castello di Neuschwanstein in Baviera, costruito da Ludovico il Pazzo. Secondo la tradizione, il Monte Popa è la dimora dei 37 nat, o spiriti, il culto dei quali è un residuo dell’animismo pre-buddhista che il re Anawrahta nell'XI Secolo in un primo momento proibì, ordinando la demolizione dei templi loro dedicati nonché i sacrifici di animali che si facevano proprio sul Monte Popa; in seguito, resosi conto che così facendo avrebbe allontanato la popolazione dal buddhismo theravada, si ravvide e ammise il culto di 36 nat ufficiali, di cui fece un elenco (in realtà erano molti di più: il termine nat, anch’esso di origine sanscrita, significa “guardiano” o “signore” ed era associato a un luogo, una persona specifica o a un settore di attività umana su cui era in grado di esercitare un'influenza o un potere: né più né meno che le divinità, dai tratti estremamente umani, che ne amplificavano vizi e virtù, che affollavano l’Olimpo dei greci e che vennero adottate dai romani, i quali, molto più concreti, a loro volta vi affiancarono quelle latine legate principalmente alla terra), aggiungendone un 37°, che venne nominato “re dei nat”: Thagyamin, divinità hindù derivante da Indra. Il quale, secondo la mitologia hindù, aveva reso omaggio al Buddha e così tutto quanto si sistemava. Da questo punto di vista, le analogie con il culto degli Orixás africani che sopravvive e anzi prospera in Brasile, soprattutto nella sua “capitale nera”, Salvador da Bahía, e il sincretismo tra divinità africane e santi cattolici, è evidente. Tornando alla salita, peccato non aver avuto modo di ingaggiare una guida, ma le informazioni ricevute dalla “Lonely Planet” sono risultate esaustive. Un tipico passaggio coperto, in alcuni tratti ripido e disagevole, ma perlopiù dotato di corrimano, porta alla cima passando per una serie di templi dedicati ai nat, sorta di stazioni dove i locali si fermano per omaggiarli e lasciare offerte. Per neutralizzare una qualsiasi loro reazione negativa, nell’ascesa non bisogna indossare nulla di rosso o di nero (colori maledetti, quando associati: capito, amici milanisti? E foggiani), portare della carne con sé, specie se di maiale, sparlare di qualcuno o bestemmiare: su quest’ultimo punto ero in difficoltà, perché detesto le salite, quando non sono assistite da strumenti meccanici. Ma mi sono trattenuto, e non ho tirato sacramenti nemmeno quando ho avuto che fare con le irascibili scimmie che infestano il luogo: sono loro che fanno da guardia pretoriana al rifugio dei nat, molto efficaciemente delle statue di elefanti, tigri, serpenti che presidiano gli ingressi dei due camminamenti che portano in cima al monte. I macachi in questione, vivi e vegeti a differenza dei loro più massicci colleghi in legno o terracotta laccata, sono perniciosi in due modi: smerdando la scalinata, danno il destro ai provvidi “pulitori” di avere un motivo per chiedere una contribution for cleaning a ogni pie' sospinto, dato che nei siti buddhisti si entra a piedi rigorosamente nudi, e molestando chiunque in una spasmodica ricerca di cibo. A qualche sprovveduto è capitato che aprissero fulmineamente lo zainetto per cercare qualche prelibatezza gastronomica: trovandosi un portafoglio in mano, non commestibile, a qualcuno (un giapponese) è pure successo che l’abbiano gettato nel vuoto. La soluzione è starne alla larga, non prodursi in carinerie ai piccoli scimmiotti “tanto teneri” perché se no la madre si incazza di brutto, e ricorrere ai mezzi che utilizzano i locali: comprare a poco prezzo una dozzina di tubi di carta con inseriti semi di girasole, sesamo  o altro, e concedergliene uno alla volta, con superiore magnanimità. Perché, come sostengo da anni e ne sono sempre più convinto, sono le scimmie a discendere dall’uomo e non viceversa. Oltre a essere infinitamente più intelligenti di noi, sono perfino più stronze, e questo dimostra l’origine comune al di là di ogni prova del DNA. Alla fine l’ascesa, che per quanto faticosa non impegna più di mezz’ora, viene premiata non tanto per il panorama, magnifico, che si gode dalla cima, quanto per il misto di magia a concreta devozione, sacro e profano, dopo il succedersi di siti in cui non è il Buddha, l’Illuminato, per quanto supremo, a essere protagonista quanto, per una volta, questi suoi accompagnatori avventizi, malevoli o benevoli e mutevoli quanto la natura umana, che vengono molto, ma molto prima di lui. E a cui i birmani si rivolgono come divinità familiari, oggi come sempre, pur essendo buddhisti nel profondo. 

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