lunedì 30 gennaio 2012

Da Bagan al Lago Inle, nella terra degli shan


Il glorioso Nissan-UD

Nyaungshwe / Lago Inle - La tratta da Bagan alla regione del Lago Inle non supera, secondo me, i duecentocinquanta chilometri ma, considerati mezzi di trasporto e soprattutto lo stato delle strade, costituisce un’avventura nel viaggio. Vero che il primo tratto è uno saliscendi sterrato sconnesso che corre a Sud del Monte Popa e che diventa decentemente transitabile soltanto nei pressi di Meiktila, crocevia tra le direttrici Nord-Sud, Mandalay-Yangon, ed Ovest-Est, Bagan - Lago Inle, a sua volta situata sull’omonimo lago; che dopo Thazi si procede su una tortuosa strada in salita sul lato occidentale dell’Altopiano Shan, attraversando paesaggi mozzafiato fino a Kalaw, stazione di villeggiatura per funzionari inglesi fondata in epoca coloniale, dall’aria frizzante e famosa come base per il trekking, per poi scendere in direzione di Tangguyi; che sono comprese due soste per colazione e pranzo e altre due per sgranchirsi le gambe e fare il pieno di gasolio, ma ci si impiegano 11 ore (invece che delle 12 previste), con partenza-shock alle 5 e arrivo alle 16 pressati come le sardine, un clamoroso overbooking che, dopo una delirante fase di controllo dei biglietti e di ripetute conte, quasi a non volersi capacitare di aver venduto un numero doppio di biglietti rispetto ai posti disponibili, si risolve come sempre in Asia, utilizzando sgabelli di plastica da piazzare strategicamente lungo i corridoio e cercando volontari per il “posto ponte”, leggi tetto, dello scalcagnato veicolo Nissan-UD in dotazione: i più astuti, perché se non altro hanno potuto adagiarsi tra i bagagli, in buona parte zaini, sicuramente più comodi e morbidi dei sedili di sotto, anche  se le prime ore di viaggio devono essere state sgradevoli per vie del freddo intenso. Non che al piano inferiore facesse caldo: la portiera era spalancata per consentire al copilota di sporgersi, chiedere la precedenza a urli e gesti e fare scansare cani e soprattutto bovini vaganti dalla carreggiata con appositi comandi vocali. Questo personaggio ha altresì il compito di comunicare coi passeggeri, per la quasi totalità stranieri, in un inglese azzardato, e di eseguire la conta ad ogni sosta; con l’autista, che è rimasto lo stesso per tutta il viaggio, fanno due; poi c’è l’”accompagnatore”, altro personaggio immancabile, che ha il compito, presumo, di tener compagnia all’autista chiacchierando con lui e passandogli del betel da masticare per tenersi sveglio e concentrato: questi ha l’onore di sedersi a suo fianco su uno strapuntino. Il posto n° 1, al finestrino, è immancabilmente riservato alla belloccia di turno, vestita in modo vistoso e con tanto di rossetto catarifrangente, l’amica del cuore di uno dei tre caporioni o forse di tutti e tre e infine l’addetto ai bagagli, il “ragazzo di bottega” oppure paria, che viaggia sul tetto per assicurarsi che le corde reggano, e che tiene d’occhio i volontari di cui sopra. Di riffa o di raffa, tra una fermata imprevista, una coda, un sorpasso azzardato, arrancando sulle montagne si arriva in vista della larga vallata nel cui cuore è situato il Lago Inle, da sempre tra le mete turistiche principali del Myanmar, uno specchio d’acqua di 22 chilometri di lunghezza per 11 di larghezza, anche se è difficile stabilirne i contorni perché manca una vera e propria linea costiera (non può si chiamare tale la strada che ne segue, a grandi linee, la sponda occidentale) dato che è difficile stabilire dove finisca il lago e inizino le paludi, con l’acqua che man mano diventa sempre meno profonda mentre si infittisce l’intrico di canneti a piante acquatiche. A una mezz’ora da Shwenyaung, situata all’incrocio con la strada che porta a Nyaunghshwe, sulla riva Nord del lago e sua porta d’ingresso, dove è previsto che si scenda e si prendano dei pick up o dei mototaxi, il copilota e interprete, ammiccante e con la collaborazione fattiva del pollo di turno, questa volta un canadese, spara ai passeggeri, ormai intronati dallo sballottamento, dalla stanchezza e dal desidero di raggiungere l’agognata meta, l’allettante e furbesca proposta di deviare “appositamente” dalla strada per Tanggguyi (ecco spiegato il netto anticipo sulla tabella di marcia) per portarci direttamente alla meta, senza bisogno di cambiare mezzo. “2500 kyat (circa tre dollari) a testa invece degli 8000 che vi chiedono per un taxi condiviso”, dice, tralasciando di spiegare che ne chiedono sì 8000 ma per 4 passeggeri, ossia 2000 a testa. Il tutto per gli ultimi 7 chilometri a fronte di 10000 kyat pagati per l’intera tratta fino a Tangguyi (e che nessuno sfrutta fino all’arrivo). E la proposta vale solo se almeno la metà dei passeggeri accetta. Una sorta di autodirottamento che avrebbe fruttato ai cinque furbacchioni un extra di almeno 50000 kyat a fronte di 14 chilometri in più (che nessuno avrebbe verificato sul contachilometri, probabilmente inesistente o taroccato). Non avevano fatto i conti con due svizzeri e una famiglia di cinesi che hanno fatto in un baleno quattro conti della serva: “2500? Non se ne parla neanche. Se la maggioranza accetta, si fa 1000 a cranio e vi va già di lusso. Se accetta tutto il pullman, e siamo in 40, facciamo un forfeit di 25000. Altrimenti faremo finta di non aver sentito la proposta”. Una logica ferrea che spiega perché gli svizzeri sono gli gnomi che conservano e lucrano sui capitali loro affidati a tutto il mondo, e sul perché, commercialmente, i cinesi sodomizzino l’intero pianeta a loro piacimento. I cinque presunti furbacchioni sono rimasti così sbalorditi che nel frattempo si era arrivati al bivio di Shwenyaung, con un’ora di anticipo nonché l’impossibilità di andare avanti a barare visto il comitato di accoglienza di taxi, furgoni, pick up, mototaxi in attesa, tutti pronti a farsi concorrenza, per cui nessuno ha pagato più di 2000 kyat per il transfer e in più ognuno è stato recapitato direttamente all’albergo o guesthouse prenotati oppure in quello a cui lo avrebbe condotto, in cambio della congrua commissione, l’autista del mezzo. Per la serie: quando si fanno i conti senza l’oste. In questo caso lo gnomo rossocrociato e il pericolo giallo. Intanto sono al secondo giorno in questo delizioso paesino dall’atmosfera lagunare così tipica che mi è subito sembrata estremamente familiare, ricordandomi da vicino alcune parti di Burano, Torcello e soprattutto Sant’Erasmo, da sempre l’orto di Venezia che rifornisce i mercati di Rialto, Cannaregio, Santa Margherita e San Barnaba. Non a caso anche qui si usano barche dal fondo piatto e anche qui si voga: con una delle due gambe anziché a braccia, ma la tecnica è identica. E la cosa più bella è che i turisti, anche se ce ne sono, non si vedono o quasi. Quelli dei gruppi sono rinchiusi nei loro recinti plastificati ai margini della cittadina e vengono portati direttamente dai pullman al punto di imbarco per la gita d’ordinanza sul lago; i viaggiatori indipendenti entrano a far parte del panorama e vengono assimilati e coinvolti dalle attività locali fino a non notarsi più e quasi a sparire, tanto che tra le 9 e le 10 di sera scatta una sorta di coprifuoco vale per tutti e si va a nanna nelle proprie camere, adeguandosi al ritmo degli indigeni, senza che venga il minimo desiderio di alterarlo. E questo è impagabile. Per esplorare in lungo e il largo il lago c’è ancora tutto il tempo che ci vuole.

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