venerdì 13 gennaio 2012

Autorità morale e istituzioni

Sule Paya
YANGON – Descrivere le grandi pagode di questa città risulta essere non solo difficile ma anche un esercizio inutile. A tanto dovrebbero bastare le foto, sempre che riesca a postarne qualcuna. Ciò che queste non possono esprimere è l’atmosfera di cui sono intrise e il senso che hanno per la popolazione locale, il modo in cui questa li vive. I birmani sono profondamente pervasi dal pensiero e dall’etica buddista, ed è anche noto che i monaci sono non soltanto l’autorità morale (e all’occorrenza la coscienza civile) ma anche l’unica vera istituzione riconosciuta da tutti nel Paese, ma luoghi come le pagode, che racchiudono una serie che sembra infinita di templi, sono una parte importante della loro esistenza e delle loro giornate; spazi che vivono per ritrovarsi con sé stessi, i propri pensieri, staccarsi dal quotidiano, prendendosi, per così dire, una vacanza. Ma senza dimenticarsene. Ognuno segue i suoi rituali, fa le offerte all’animale che rappresenta il proprio giorno di nascita, a uno spirito o a una reincarnazione del Buddha; oppure fa quel che crede: alcuni si dedicano alla meditazione, altri intonano litanie di gruppo, pranzano, si appisolano, leggono, chiacchierano con un monaco. Questi a loro volta si dedicano alle attività più disparate, compresa quella di attaccare  volentieri bottone coi visitatori stranieri e lasciarsi andare a lunghe disquisizioni calcistiche. Anche per chi non è buddista, l’atmosfera delle “paya” è contagiosa: anche nella strepitosa Swedagon, meta incessante di pellegrini e di turisti che domina la città ed è visibile da quasi tutti i suoi punti, dopo che si rimane stupefatti e incantati dalle decine di zedi, dalle nicchie, dalle statue, dai mille colori sfavillanti, dall’oro rilucente, si viene presto pervasi da un senso di rilassamento, di pace, e si finisce per prendere esempio dai locali, cercarsi una nicchia dove fermarsi, in un ambiente con cui ci si trova in sintonia, sistemarsi a proprio agio e perdersi, facendo vagare il pensiero. A me è pure capitato di appisolarmi, ed è stata una delle “penniche” pomeridiane più soddisfacenti di cui ho memoria. Ero in realtà reduce da una intensa giornata di scarpinamento e di visite alle diverse “paya”: avevo cominciato dalla Sule, che risale a duemila anni fa, e che funge da rotatoria nel più importante snodo di traffico del centro cittadino, con uno zedi (o stupa)  che culmina con una campana anch’essa inconsuetamente ottagonale, alta 46 metri, e nel cui perimetro si aprono una serie di negozietti del più vario tipo: un barbiere, una copisteria, un internet point, un paio di astrologi e lettori della mano. Sacro e profano si accompagnano sempre nella vita di uno zedi birmano. Al seguito di un monaco e di uno studente di architettura e restauro con cui mi ero messo a chiacchierare, sono andato a visitarne altre due: la Ngahtatgyi Paya, dove si trova un imponente Buddha seduto su un incredibile baldacchino di legno finemente intarsiato (due anni di lavoro di restauro), alto 45 metri, bianco, con vestito dorato tempestato di giade, smeraldi, rubini, diamanti, in un’area piena di monasteri, in mezzo alla giungla: in alcuni casi sempilcissimi bungalow, in altri casotti coloniali riadattati (era una zona residenziale dove vivevano gli inglesi) qui vivono, anche se non si notano, più di mille monaci; poi, appena attraversata la strada (quella che conduce dalla Swegadon all’aeroporto), la Chaukhtatgyi Paya, dove si trova invece un gigantesco e impressionante Buddha dormiente, lungo 72 metri, e custodito all’interno di un capannone col tetto di metallo. All’interno del complesso del tempio, che ricorda un villaggio campestre di un'altra epoca, si trova anche il centro Shweminwon Sesana Yeiktha, dove si riuniscono a meditare molti buddhisti birmani. E’ intuibile per quale motivo queste due “paya” non vengano per nulla pubblicizzate. In tutti i casi, e negli ultimi due in particolare, basta varcare la soglia di queste pagode per entrare in una dimensione completamente diversa da quella caotica della città circostante, eppure nessuno meglio dei monaci sa interpretarne e coglierne la realtà.

2 commenti:

  1. Aleggia, leggendo questo post, un'aura misteriosa, cioè mistica. Quella dimensione del sacro che, nel suo significato più alto non può che comprendere la dimensione umana che il sacro partorisce.
    In particolare in quest'ultima foto, dove l'ombra e la luce formano quasi il simbolo dello yin-yang (il Tutto, cioè il bianco abbracciato al nero, dove il nero contiene un punto bianco e il bianco un punto nero, cioè la Perfezione dell'Universo nella sua totalità).
    Sullo sfondo dei panni stesi, abiti vuoti dei monaci, i rinuncianti, si apre fra le piante e la terra battuta uno scorcio di luce da cui si intravvede, oltre un tetto, un micro tetto dorato di un (possibile?) stupa.
    Insomma, se questo è l'inizio di un viaggio, ha le premesse per rivelarsi un rito di trasformazione.
    Umana e Divina, che questa è sempre trasformazione anche di quella.
    Chapeau e buon proseguimento...

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  2. Non trovo le parole giuste, ne ho solo una: MERAVIGLIOSO!

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