sabato 3 settembre 2011

Ten Years After




Alcune ricorrenze sono vere e proprie pietre miliari e vanno commemorate. Sono esattamente 10 anni che ho lasciato la citta dove sono nato, cresciuto, in cui ho studiato, lavorato e vissuto per 45 annni della mai vita, dai famigerati anni Ottanta in poi sempre più come "clandestino", fino a quando non l'ho sentita più mia. Il 3 settembre del 2001, due grossi furgoni al seguito, sono sbarcato armi e bagagli sul medio corso del Tagliamento e mi sono insediato qui. Non so dire quanto m'abbia espulso Milano, come fossi un calcolo, o quanto la rinnegassi io, sentendomi ormai un corpo estraneo. 10 anni nel cuore del Friuli e mi sembra di averne guadagnati 30 in termini di qualità della vita: nonostante le perplessità di quasi tutti i parenti, miei amici e conoscenti, non ho mai avuto dubbi sulla mia decisione, né ripensamenti. Ho avuto meno difficoltà di ambientamento qui, dove pure il "foresto" viene valutato con una certa circospezione, che di sopportazione per il mantenimento dello status quo ante a Milano, e probabilmente una terra di confine, dove il frastuono del chiacchiericcio ossessivo e inconcludente giunge da lontano, così attutito da diventare soltanto un brusio di sottofondo, meno insopportabile che nel centro economico-finanziario-editoriale del Paese, è più confacente alla mia natura mulatta e transfrontaliera, semmai orientata verso il centro dell'Europa. Di cui il Friuli ha sempre fatto parte. Terra di frontiera (letteralmente, nel senso di fronte, durante le due ultime guerre) e di con-finiI due termini non si contraddicono: specie il secondo che racchiude sia quello di limite (fine) sia l'elemento di unione (con). Si tratta di limiti comuni, ossia in comune. La coscienza dei quali è ciò che manca agli italiani per renderli cittadini a pieno titolo (e non sudditi) di uno Stato degno di tal nome, di cui infatti dopo 150 anni non c'è traccia, inteso come sovrastruttura necessaria per la convivenza civile tra soggetti liberi aventi un minimo comune denominatore, ossia dei limiti in comune (riecco i con-fini) da rispettare, e che gestisce, a nome e nell'interesse di tutti, dei beni in comune, oltre che fornire dei servizi per cui si paga, in iIlatia, uno sproposito rispetto a quanto si riceve in cambio. Forse, per sentirsi italiani (senza esagerare, però), bisogna vivere ai confini. Lontani dai centri di potere, Roma e Milano soprattutto. Sperando di non essere ridotti a sentirsi italiani quando si è all'estero, magari costretti. Come è successo a intere schiere di connazionali di oggi (giovani in fuga, specie i "cervelli", che in un Paese gerontocratico non trovano spazio), di ieri (gli esuli antifascisti, per essempio, e milioni di emigrati per sfuggire alla miseria indotta da uno sviluppo sociale distorto) e dell'altroieri, quando si era divisi in staterelli. Milano, coi suoi tic, i suoi ritmi compulsivi e insensati, è ormai lontana. Non mi manca per quello che è, semmai per quello che è stata e non potrà più essere. Ma questo fa parte dei miei ricordi. Di una memoria che la Milano di oggi sembra rifiutare, non sapendo cosa farsene. Infatti è diventata un non luogo, senza identità, come un centro commerciale. Come molte altre cose in Italia, anche il berlusconismo, ultimo stadio del degrado di questo Paese, ha avuto inizio a Milano. Meglio vederla da qui, a distanza di sicurezza, senza invidiarle nulla. E assaggiarla a piccole dosi da turista. Ormai da dieci anni home è 400 chilometri più a Est. E sono passati in un attimo.

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