domenica 8 novembre 2009

Ritorno nella Terra dei cachi. E dei macachi.


MacachiSe avevo lasciato Buenos Aires con delle impressioni non del tutto lusinghiere, e dettate principalmente dall'amore che nutro per quella città e dalla preoccupazione per un momento non facile per il Paese, non avrei mai pensato che mi sarei ricreduto così velocemente, rivalutandola, al primo impatto con la realtà italiota ancor prima di atterrare a Linate, il "City Airport" della Milano edizione Expo 2015. Impatto avvenuto attraverso la forzata convivenza con i passeggeri del volo in partenza da Francoforte, in buona parte connazionali dell'operoso ex Triangolo Industriale in trasferta d'affari, in rientro con l'ultimo volo utile per il fine settimana, e con i titoli dei quotidiani in omaggio: il Corriere e la Ri-pubblica. I primi gesticolanti, vocianti, scalmanati, attaccati al cellulare fino all'ultimo secondo utile prima del decollo a sparare cazzate fregandosene di chi sta intorno: essendo tutti dotati di auricolare incorporato, non si rendono neanche conto del chiasso che fanno, costringendo il personale di bordo a reiterare l'invito a spegnere l'apparecchio come fossero degli infanti alle prese col ciuccio; i secondi, intendo i nostri più "prestigiosi" quotidiani nazionali, con titoli altrettanto urlati ed esagerati sulla solita, eterna fuffa. Una scorsa di cinque minuti mi è bastata per rimpiangere di non essere altrove: Berlusconi che nega di aver mai pensato al Quirinale e di aver avuto relazioni con Noemi Letizia, e il suo impegno per la candidatura di D'Alema a ministro degli Esteri della UE; una pagina sull'uscita del libro di Bruno Vespa, annuale fatica dell'insetto di cui la prima puntata di anticipazioni era già comparsa sui giornali un mese fa quand'ero partito; una pagina di intervista a Don Merdé, il creatore del San Raffaele, già cappellano di corte di Craxi e ora anche confessore del puttaniere del Consiglio in carica; i contagi record, guarda a caso a Napoli, da virus "suino", dopo che per tutta l'estate ci hanno scassato gli zebedei con il vaccino e le misure in vista dell'emergenza imminente; la diffusione, altrettanto record, della cocaina in Italia; il taglio dell'IRAP, di cui si parla a vanvera da oltre un decennio; il via libera del CIPE a 8,7 miliardi di euro di spese per opere infrastrutturali, tra le quali il famigerato ponte sullo Stretto di Messina, con le cosche mafiose e 'ndranghetiste che, sentitamente, ringraziano mentre rimangono esclusi i finanziamenti per la banda larga di internet: e qui mi sovviene che in trenta giorni, tra Argentina e Uruguay (non sto parlando della Scandinavia) in qualsiasi parte mi trovassi, dalle Ande al più sperduto paese sulla costa uruguayana, ho sempre usufruito di una connessione wi-fi ad alta velocità gratuita in qualunque albergo, peraltro di categoria mai superiore a quella di un "tre stelle", e che comunque sarebbe stata presente in un buon numero di bar, ristoranti e luoghi pubblici. A questo punto ho chiuso con la rassegna-stampa e sono tornato a leggere il mio giallo. Svedese. E non ero ancora atterrato. Ieri mattina una mia amica mi ha chiesto com'era stata la prima sensazione di rientro in patria: scoraggiante e, al contempo, una conferma. Che in questo Paese il tempo sembra essersi fermato e non cambia mai niente, se non in peggio, per progressiva decomposizione. La prima impressione è stata di subire un furto: 22 euro da Linate in fondo a Corso Lodi, verso il Corvetto, un quartiere sostanzialmente adiacente, in un orario, le sette di sera, di traffico scarso in direzione centro. Altri 12 da lì in via Castel Morrone. Tre chilometri a dir tanto. Con l'equivalente sarei andato dal centro di Buenos Aires all'aeroporto internazionale di Ezeiza, a 50 chilometri di distanza e tornato indietro, pedaggi autostradali inclusi. La seconda: di viaggiare sulla superficie lunare. Perché se mi ero lamentato dei marciapiedi e delle strade di Buenos Aires dopo tre giorni di acquazzoni quasi tropicali, mi ero scordato dei crateri che ci sono a Milano e di come si riducano le strade dopo una sola mattinata di pioggia, evento nient'affatto straordinario ed emergenziale, dato che si è in pieno autunno, che si era verificato appunto venerdì. Altro che Expo e nuove linee della metropolitana. La terza: di essere capitato in un Paese di zotici. Ricevere un buongiorno o anche soltanto un saluto di risposta, all'entrata come all'uscita da un locale pubblico, in questa città è un evento rarissimo. Come già osservato più volte, il Barista Stronzo è una figura emblematica della Milano da bere (e da cancellare). Quando poi la cafonaggine si abbina alla sciatteria, sufficienza, malmostosità, discompiacenza e antipatia dell'addetta, apparsa dietro il banco dopo quasi cinque minuti e come se non bastasse anche piuttosto sporchetta, il tutto in un noto bar dall'evocativo nome di alba francese e che si picca di essere "alternativo", il desiderio è quello di andarsene da un'altra parte. Invito che peraltro mi rivolgono svariati conoscenti, che se da un lato si lamentano della situazione nazionale e di essere immersi nella cialtronaggine, dall'altra mi accusano immediatamente di essere un trombone, qualunquista e reazionario e di avercela su con tutto e tutti "a prescindere". Poi magari si tratta di quelli stessi che due settimane fa sono andati a versare l'obolo di due euro a cranio a quello che, oggi, 2009, per bocca del suo neosegretario ha il coraggio di proclamarsi partito dell'alternativa, e per dimostrare, inequivocabilmente, che chi vota per il PD è identico ai suoi dirigenti, i quali di conseguenza si merita. Uno si chiede se per raggiungere questo risultato fosse necessario sciogliere prima il PCI, poi il PDS, poi i DS per ritrovarsi ancora con Bersani, D'Alema, Fassino, Violante, Finocchiaro, Reichlin e compagnia bella fra i coglioni. Con Napolitano padre nobile e la benedizione della Binetti. In questa felice atmosfera di rientro, mi giunge dal Cono Sur come uno spiacevole strascico la notizia della degenerazione dello scontro tra il peronista sindacato dei camionisti e i quotidiani Clarín e La Nación di cui avevo parlato nel mio ultimo post argentino, con i primi che hanno mandato i propri automezzi a bloccarne i centri di stampa, senza che la polizia, complice, intervenisse e, il giorno successivo - festa degli edicolanti - i propri energumeni a impedirne la vendita nelle strade oltre che a rubarnee distruggere interi carichi. Nella foto sotto, uno striscione degli autori di queste formidabili imprese, benedette dai Kirchner.  Ai lati, i truculenti volti dei due Moyano, Hugo e Pablo. E' più forte di me, questione di imprinting: quando penso a un sindacato camionisti, una delle categorie più corporative che esistano sulla faccia della Terra sotto qualunque cielo si trovino, mi torna in mente che fu un loro sciopero a oltranza a dare la spallata finale al governo di Salvador Allende nel 1973 in Cile. Questa volta, nel Paese vicino, è quello che fa da puntello a un regime che diventa sempre più arrogante a aggressivo quanto più sta imputridendo. Con la speranza che soccomba in fretta, definitivamente.Camioneros


giovedì 5 novembre 2009

Considerazioni finali




9 de JulioBUENOS AIRES – Ultime ore nella capitale, in tempo per alcune brevi osservazioni. Pur rimanendo di gran lunga la metropoli americana più sicura (se si esclude il Canada) e quella in cui un europeo si sente più a suo agio, ho trovato Buenos Aires peggiorata rispetto a come l’avevo lasciata l’ultima volta che ci ero venuto due anni fa. Era stato in occasione delle elezioni presidenziali che avevano ratificato il passaggio di testimone tra Nestor Kirchner e la consorte Cristina, osannato dai nostri centrosinistrati presto orfani di potere come la riprova dell’onda lunga “progressista” nel “Continente desaparecido”, per dirla con Gianni Minà, fedele alla linea, sulla scia di Lula in Brasile, Bachelet in Cile, Evo Morales in Bolivia, quel gran democratico di Hugo Chavez in Venezuela per finire con la banda Castro sull’infelice isola di Cuba. Avevo espresso allora le mie perplessità sul nepotistico cambio della guardia alla Casa Rosada e il timore del prevalere delle pulsioni più populiste del peronismo, peraltro iscritte nel DNA del “movimento”, al di là dell’intento dichiarato dell’ex presidente di non interferire nel governo di Cristina e di dar vita a una forza politica che, finalmente, dopo sessant’anni lo superasse. E invece siamo ancora lì, con le metastasi che si propagano da questo cancro che tuttora affligge questo Paese, come da noi il fascio-catto-comunismo, del resto. Una volta riconosciuto a Nestor Kirchner il merito di aver guidato l’Argentina fuori dalla peggior crisi della sua storia, all’inizio del Millennio, le cose sono andate come temevo. Avenida Corrientes e ObeliscoL’ex presidente è andato avanti a governare nell’ombra (come in Russia l’Amico Putinalle spalle di Medvedev), in attesa di ripresentarsi al prossimo turno tra due anni e, dopo la sconfitta alle legislative del giugno scorso, ha prevalso la sindrome dell’accerchiamento e il sistema presidenziale si è incattivito, nel risoluto tentativo di consolidare le proprie posizioni di potere prima che abbia inizio la nuova sessione di lavori del Parlamento rinnovato, tra un mese, in dicembre. Ed ecco una serie di decisioni e forzature: dai prelievi fiscali sull’esportazione che hanno colpito soprattutto i produttori medio-piccoli del settore agroalimentare, alla recente legge sui media che ne accentua il controllo da parte del governo, soprattutto la pretesa di gestire senza filtri i fondi destinati alla “lotta alla povertà” (nascondendo e truccando peraltro i relativi dati statistici), individuando a proprio giudizio i bisognosi: si sta cercando di forzare la mano per approvare il relativo provvedimento legislativo da parte del Parlamento ancora con la maggioranza attuale. Perché questo sistema funziona e paga, come testimonia l’utilizzo finalizzato delle risorse del ministero dello Sviluppo Sociale, affidato guarda caso ad Alicia Kirchner, sorella dell’ex presidente e cognata di quello attuale, a favore delle “cooperative  sociali” nelle mani dell’intendenza kirchnerista, per lo più sindacalisti e piqueteros (coloro che bloccano le strade) vicinissimi al governo che gestiscono decine di milioni di pesos per lavori di dubbia utilità ma che danno lustro e consenso alla “presidenta” superando  d'autorità il livello di competenza provinciale. E, quel che più conta, assicurando al governo l'appoggio e la gestione della piazza, per compensare le sconfitte elettorali. Gli esempi sono quotidiani. Da quando sono tornato qui per due giorni un gruppo di non oltre 300 piqueterosha bloccato l’Avenida 9 de Julio (foto in alto), la strada più larga del mondo e anche la principale arteria della città: si tratta di aderenti a cooperative che risultavano escluse dai finanziamenti perché non integrate nel “sistema Kirchner”, insomma si sentivano discriminati nell’elemosina. La polizia si è ben guardata dall’intervenire nonostante fossero in buona parte a volto coperto e armati di mazze di ferro e randelli, e il blocco è stato tolto quando è stato loro garantito un sovvenzionamento autonomo, saltando gli intermediatori sindacali. In sostanza cooptandoli nell’intendenza presidenziale. Il giorno successivo, ieri, altro blocco, questa volta di fedelissimi della prima ora, nello stesso punto, all’altezza di Avenida Belgrano, di fronte al ministero dello Sviluppo Sociale, per solidarietà alla presidenza. Garrivano al vento bandiere rosse con l’effigie di Che Guevara e azzurre con quella dell’eterna Evita Perón. Sembrava di assistere a “Ritorno al futuro” e rivivere alcune sceneggiate anni Settanta, per fortuna senza i forsennati furori ideologici di allora. Che qui sono stati una delle cause di una dittatura bestiale durata sette anni e di 30 mila desaparecidos: una generazione sterminata. Avenida de Mayo e Casa Rosada sullo sfondoSempre di questi giorni il blocco della distribuzione fuori della capitale dei due principali giornali del Paese,Clarín e La Nación, guarda caso quelli più invisi al potere e maggiormente danneggiati dalla recente legge sui media (la cui approvazione aveva visto festeggiare davanti al Parlamento  a notte inoltrata, in barba ai lavori socialmente utili,  tre settimane fa, gli stessi personaggi rivisti ai blocchi stradali di questi giorni, con le stesse bandiere), ad opera del sindacato dei camionisti vicino ai Kirchner. Il pretesto: "convincere" autisti e lavoratori delle cooperative di spedizione a iscriversi al loro sindacato, capeggiato da Pablo Moyano, guarda caso figlio di quel Hugo più che discutibile personaggio a capo dell'onnipotente CGT e grande elettore dei Kirchner. Sempre dalle 11 di questa mattina, sciopero delle cinque linee della metropolitana per 24 ore, senza riguardo per fasce orarie “protette”, il che in un'area urbana di oltre 10 milioni di abitanti significa il caos assicurato, più una mezza dozzina di manifestazioni a vario titolo, ognuno con le proprie buone – o cattive – ragioni, ma è tanto per rendere l’idea della quotidianità. Sono questi alcuni degli aspetti che ho visto riprendere piede e che mi inquietano, così come un aumento dei questuanti, di coloro che sono costretti a dormire sui marciapiedi o nei giardini, in pieno centro e nella rassegnata indifferenza di chi passa; del senso di insicurezza: tema, questo, attorno al quale ruota ogni discorso con chiunque appena si fanno due chiacchiere. In tutto questo da un lato il governo tace, fa capire che gli si mettono i bastoni tra le ruote, minimizza e falsifica i dati: non solo quelli sulla povertà, come già detto, ma anche quelli sull’inflazione, sull’indebitamento e sulla criminalità; dall’altro giornali e TV danno fiato alle trombe e il risultato è un cane che si morde la coda, ossia un generalizzato senso di precarietà, diffidenza e talvolta paura che si autoalimenta e che si percepisce nell’aria. E non ha nemmeno senso invocare l’intervento delle forze dell’ordine, talmente corrotte e inefficienti da creare, se possibile, ancora più disagio e apprensione. Tutte situazioni che in Italia conosciamo bene e che vanno affrontate con rigore e lungimiranza, sapendo che non esiste alcuna bacchetta magica e che gli interventi in questo senso sono di lungo periodo, ma per il momento si preferisce fare una gran confusione in cui ognuno fa la sua rimostranza senza riuscire a vedere la situazione nel suo complesso e venire a capo di nulla. Per finire ho trovato la città pure più sporca, e perfino il livello calcistico si è notevolmente abbassato: la Nazionale si è qualificata di straforo ai Mondiali giocando in maniera penosa e Boca e River, le due squadre cittadine più blasonate e tra le più titolate al mondo, veleggiano a metà classifica nel campionato locale (a questo proposito, uno degli interventi tipicamente populisti della presidenza è stata la decisione di trasmettere sulle reti pubbliche, gratuitamente, tutte le partite del torneo, pagando i diritti più di quanto non fossero disposte a fare le emittenti private, salvando in questo modo i bilanci delle società e permettendo l’avvio del  campionato che era rimasto al palo: puro panem et circenses). Alcune cose, in compenso, non cambiano mai: le velocità folli a cui circolano i “colectivos” , con gli autisti delle decine di diverse compagnie che guidano a cottimo, e i loro percorsi demenziali; la endemica mancanza di spiccioli con cui pagare le suddette corse dei mezzi pubblici – ma i mini assegni di italica memoria, sempre anni Settanta, non li hanno ancora adottati -; le lungaggini e gli intoppi burocratici per poter cambiare valuta e le grassazioni sui prelievi bancomat. Però ci sono anche più librerie in questa città che in tutta Italia, perché qui la gente legge e si informa, come dimostra anche il numero di edicole e quello dei quotidiani esposti (camionisti sindacalizzati permettendo) e non si limita, a parte il calcio, a farsi rincoglionire dalla TV, peraltro di qualità di poco meno scadente di quella nostrana ma quantomeno non soggetta a duopolio-monopolistico. Alla prossima, dunque, e suerte, Argentina! (qui sotto, il Cabildo, la municipalità)Cabildo de Buenos Aires

mercoledì 4 novembre 2009

I paseaperros: la città e i cani

LBUENOS AIRES - Una delle istituzioni più simpatiche di questa città è il "paseaperros", ossia passeggiatore di cani dietro modico compenso. I porteños hanno una predilezione per i quattro zampe, di tutte le razze e di ogni dimensione, ma perlopiù ragguardevole, e da una ventina d'anni la figura del ragazzo, ma anche della ragazza, dotati di polso di ferro e muscolatura di braccio e spalla da tennista, fa parte del panorama urbano. Aveva fatto la sua comparsa negli anni Novanta, e a dedicarsi a questa attività erano generalmente studenti; con la crisi del 2001/02 e degli anni seguenti ha preso piede e qualcuno ne ha fatto una professione. Oltre che organizzati e puntuali, bisogna essere affidabili e dotati di una particolare abilità: io non ho mai visto, anche quando i cani raggruppati sono una quindicina, che si azzuffassero. Sono sempre felici, sembrano quasi sorridenti e si affezionano ai loro padroni part-time, che evidentemente ci sanno davvero fare se riescono da un lato a trattenerli, non farsi saltare addosso nemmeno per essere salutati e "lavati" e farli camminare alla stessa andatura, dall'altro a evitare che defechino sui marciapiedi. E' incredibile come le tipiche veredas di cotto di Buenos Aires, per quanto divelte, non siano mai lorde di escrementi e i cani sembrano aspettare di essere giunti in una zona verde opportunamente adibita. Così come non ho mai visto animali aggressivi, eppure abbondano rottweiler, dobermann, pastori tedeschi che che da noi seminano il panico, probabilmente perché in mano a gente incapace di allevarli. I paseaperros entrano in azione generalmente a metà mattinata, e li si vede in giro fino al tramonto non solo nelle zone residenziali e benestanti della parte settentrionale della città, Barrio Norte, Puerto Madero e dintorni, dove naturalmente abbondano, ma anche in quelle popolari e piccolo borghesi come San Telmo, dove abitualmente soggiorno e dove ho scattato queste due foto, in calle Perú, a qualche minuto di distanza. Dopo la paziente ed educata attesa che l'addetto completi la raccolta dei partecipanti alla gita, a giudicare dall'espressione soddisfatta alla partenza verso la quotidiana sgambata collettiva nel parco sono sicuro che si divertano un mondo. E nel frattempo è spuntato pure il sole.L

lunedì 2 novembre 2009

A Buenos Aires, con l'intercessione della Difunta Correa e del Gauchito Gil

UrquizaBUENOS AIRES - Dopo 18 ore di viaggio, grazie alla protezione della Difunta Correa e all'intercessione del Gauchito Gil, sono riuscito a tornare sano e salvo nella capitale, in vista del litorale e dell'ormai prossima attraversata dell'Atlantico in direzione Est, e inverno. Partenza alle 2 di ieri pomeriggio da Chilecito, temperatura di "appena" 39 gradi, la discreta aria condizionata della corriera era una giusta contropartita di fronte alla lunghezza della tratta, se non fosse che, durante una serie di soste lungo le statali Rutas Nacionales 40 (la "mitica") e 74 per raccogliere i passeggeri che dai paesi oli e vitivinicoli della valle compresa tra le sierras di Famatina e di Velasco si recano a Córdoba o nella capitale federale, il mezzo cominciava a dare segnali di problemi meccanici o, chissà, elettrici. Spegnimento del motore al momento di ripartire, un procedere affannoso a marce basse; due, tre volte, con relativo spegnimento dell'aria condizionata e immediato senso di claustrofobia e cottura delle meningi. Finché a Patquia, un villaggio fantasma dotato però di terminal, e caricate alcune persone, sempre proseguendo arrancando il bus è uscito dalla carreggiata per avventurarsi, per di più in leggera discesa, presso un chiosco, peraltro chiuso, dove gli autisti sono scesi a confabulare con la padrona. Gran gesticolare, e quest'ultima richiude la porta. Altro giro al terminal, nessuno che si premuri di dire alcunché. Si riprende la strada? No, altra escursione nella pista sabbiosa a altra sosta vicino al chiosco. Si aprono le porte, la maggior parte di noi scende. Per fortuna ci sono due alberi: per il resto la desolazione. Carcasse di auto, rottami di ferro di ogni pensabile provenienza ma ecco il salvatore: il proprietario di questa specie di discarica possiede una potente saldatrice e risolve il problema, che era semplicemente la leva del cambio, spezzata. Ossia inservibile, perché ne era rimasto un moncone. Il terrore era corso sul volto di tutti, non tanto per il ritardo, o addirittura il mancato arrivo e tutte le complicazioni del caso, ma per un pensiero fisso: la calura massacrante. Tutto bene, dunque: nonostante un'oretta persa, a Córdoba si è giunti poco dopo le 10 di sera con soli 20 minuti di ritardo, dopodiché cambio della coppia di autisti e via verso Buenos Aires, dove si è arrivati stamattina alle 8, puntualissimi, nonostante gli acquazzoni violenti che si sono abbattuti tra Córdoba e la costa per tutta la notte. Allagamenti anche in città, dove da tre giorni si va avanti così, ma almeno la temperatura è tornata normale: 20 gradi anziché 37, perché anche qui non si scherzava ed erano decisamente troppi per essere a metà primavera. Dicevo dei numi tutelari delle strade argentine, perché avventure a lieto fine come questa fanno pensare a cosa può capitare quando si ha un guasto in qualche landa desolata e assolata del Nord Ovest (ma anche la traversata del Chaco non è male) o battuta dal vento e ghiacciata in Patagonia, dove per mezza giornata non incontri nessuno, perché hai voglia di dire che oggi ci sono i cellulari, ma in ampie zone quel che manca è la copertura. Una, la principale, è la Difunta Correa, una "beata", riconosciuta dalla popolazione per i miracoli, non a caso protettrice dei camionisti, di cui esistono migliaia di tempietti lungo tutte le strade del Paese, da Iguazú a Ushuaia.Difunta CorreaIl principale, a Vallecito nella provincia di San Juan, poco lontano dalla zona del nostro guasto, comprende 17 cappelle e attorno è fiorito un indotto di alberghi, ristoranti, negozi, trasporti nonché gli uffici dell'associazione no profit che amministra il santuario, nonostante l'aperta avversione della chiesa cattolica e del governo. Il personaggio è esistito realmente, si chiamava Deodolinda Correa e, durante le guerre civili della metà dell'Ottocento, seguiva, assieme al figlioletto, nella campagne riarse della zona, il battaglione del marito malato che era stato coscritto. Terminate le scorte di viveri, fu trovata morta sul ciglio della strada ma il figlio era ancora vivo, attaccato al suo seno che dava ancora latte. Da lì il culto, e ancora oggi il dovere per chi passa davanti a un tempietto di rifornirlo di bottiglie di acqua o di altre bevande: se ne vedono cumuli multicolori alti un metro, a volte. Più "regionale", legato al Nord, il culto del Gauchito Gil, anch'esso personaggio reale, un gaucho di nome Antonio Gil, di cui si sa che nacque attorno al 1840 e  di sicuro la data della morte: l'8 gennaio 1878 per impiccagione a Mercedes. Varie le storie che si intrecciano sulle sue origini, però sicuramente prese parte come volontario nella guerra contro il Paraguay - si dice per sfuggire a un poliziotto della cui fidanzata si era invaghito - e poi fu richiamato nell'esercito federalista ma disertò per motivi politici, perché apparteneva al partito "colorado" (di qui i drappi rossi che adornano sempre i suoi tempietti), e insieme a due compagni si dedicò all'abigeato condividendo il bottino coi poveri. Catturato, fu impiccato, ma prima di morire disse al suo boia che, se avesse provveduto a seppellirlo - pratica che ai tempi era vietata per i disertori -, avrebbe interceduto in favore di suo figlio che era gravemente ammalato. Dopo averlo impiccato, il boia recise la testa di Gil e la portò nella città di Goya, ma quando scoprì che il figlio era stato davvero sul punto di morire, ed era miracolosamente guarito, la riportò a Mercedes per seppellirla assieme al corpo del "traditore". Ed ecco pronto un altro membro del santorale profano di queste parti: le offerte ai suoi tempietti, che come quelli della "Difunta Correa" si trovano ai margini delle strade, sono di tutti i generi: sigarette, bottiglie di grappa, abiti da sposa, bamboline, targhe di auto, perfino coltelli e, talvolta, pistole. Quando se ne incrocia qualcuno, bisogna suonare il clacson in segno di saluto, pena disagi sul percorso, o perfino non giungere a destinazione. Nei dintorni di Chilecito, prima di partire, ne avevo giusto fotografati alcuni e, opportunamente, riveriti...Gauchito Gil