martedì 11 dicembre 2007

Sampá l'è un Gran Milán!

SÃO PAULO - La terza città del pianeta per numero d'abitanti (oltre 11 milioni in centro e circa 18 compresi i sobborghi) dopo Tokio e Città di Messico, era un borgo insignificante fino ai primi decenni del XIX secolo, quando dopo la dichiarazione di indipendenza del Brasile del 1822 divenne prima capitale dell'omonima Provincia (ora Stato) e dopo sede di una facoltà di giurisprudenza, per svilupparsi quindi tempestosamente e crescendo in progressione geometrica in seguito all'introduzione delle coltivazioni di caffè, esportato dal vicino porto di Santos. São Paulo è sí sterminata, ma mai monotona, posta com'è su un altipiano dolcemente ondulato che la fornisce di continui saliscendi, che sembrano fatti apposta per conservare toniche e guizzanti le gambe delle paulistane, poco faticosi e fastidiosi tranne a causa delle auto che arrivano sparate in discesa, senza rispettare mai le strisce pedonali salvo inchiodare e lasciare sull'asfalto un centimetro di pneumatici, o peggio ancora in salita, dove non frenano e anzi accelerano per principio, per non perdere l'abbrivio. In realtà, ai miei occhi meneghini, Sampa, come la chiamano affettuosamente gli indigeni, è una Milano moltiplicata per dieci trasportata ai Tropici. Con la differenza che Milano è piatta come un tavolo da biliardo. Per cominciare entrambe hanno un clima orrendo e insalubre, freddo iun inverno, caldo d'estate, umido e sgradevole sempre. Entrambe sono attraversate da corsi d'acqua putridi e pressoché stagnanti: ìl Tietê e un altro fiumiciattolo canalizzato, il Pinheiros, qui; i Navigli e il Lambro a Milano. Entrambe hanno livelli di inquinamento che la Ruhr ai tempi d'oro era un luogo da costruirci dei sanatori, al confronto. Il traffico è insensato in entrambe le città: qui uno studio prevede la paralisi totale entro il 2012, a Milano basta una pisciatina di pioggia in più del normale. Come Milano, Sampa possiede tre linee di metropolitana più cinque fermate di una quarta, nemmeno collegata alle precedenti; più sette linee di treni, come il nostro passante ferroviario, più o meno. Insomma, i trasporti pubblici sono grosso modo equivalenti a quelli meneghini, con la differenza che qui  hanno conservato anche delle linee di filobus, e sarebbero dimensionati alla Metropoli sul Naviglio: peccato che Sampa sia dieci volte più grande. Come dire: per il resto, arrangiatevi. Le somiglianze riguardo al traffico veicolare fanno balzare all'occhio anche quelle tra gli abitanti delle due città: come il milanese, il paulistano esibisce perennemente la truncia (nda: è sempre incazzato); per strada non cammina, ma corre spintonando da invasato; in macchina è un isterico che gesticola e urla come un mentecatto; nel fine settimana si precipita fuori città, desertificandola, per riproporre Sampa sulla costa o nelle campagne circostanti (come il meneghino a Santa, sui Laghi o in Brianza) e causando ingorghi orrendi al rientro domenica sera. Se è molto alternativo e/o molto figo, fa jogging nei rari parchi dalla vegetazione malaticcia, o si dedica allo slalom tra i passanti in sella a city o trekking bike ultratecnologiche da 2000 euro a ruota, con tanto di elmetto in fibra di carbonio ultralight e fascette tergisudore catarifrangenti. L'iPod è d'ordinanza e il tatuaggio pure. Per fortuna, almeno per ora non va molto il tipo pelato, compensato però dai negri biondi. A proposito di epidermide: i bianchi, qui nettamente prevalenti (San Paolo è anche la città abitata da più italiani - o discendenti - al mondo dopo Roma) sono grigi, assolutamente intonati al colore del cielo, altrettantro prevalentemente grigio sporco; i gialli (cospicua l'immigrazione giapponese, che festeggia quest'anno il centenario) sono verdognoli e perfino i meticci e i neri acquisiscono una coloratura malsana. Come il milanese, il paulistano ama spandere merda, fare lo sbruffone e spendere palate di soldi in locali per gonzi. Jardim Paulista, il quartiere residenziale dove ho trovato alloggio, è fortunatamente tranquillo e poco pericoloso anche di notte (mentre il centro storico, in buona parte degradato, più che svuotarsi, dopo il tramonto diventa off limits per qualsiasi persona sana di mente che tenga alla propria pelle, e perfino di giorno è affollato di mendicanti e gente che dorme per terra, quando va bene avvolta nei giornali: nemmeno a Delhi ho visto qualcosa del genere): non una carta per terra, polizia e sorveglianti privati dappertutto, stazioni di taxi impeccabilmente bianchi (come quelli meneghini) ogni 100 metri, marciapiedi senza crateri, parrucchieri tipo Jean Luois David e simili, negozi alla moda, preferibilmente italiana, e naturalmente locali finti, plastificati, pretenziosi e dai prezzi esorbitanti (il trionfo del sushi bar in una città di forte immigrazione nipponica era prevedibile, come quello dei wine bar, seppure in un Paese dove è discutibile perfino la birra ma però essenziale mostrarsi à la page e soprattutto essere dei pirla). Insomma: tutto per i fighetta. Danarosi o a credito, di ogni tipo: sembra di stare tra Corso Como e i Navigli. Un mio parente che ha stazionato per qualche tempo da queste parti, ancora anni fa suggeriva come investimento l'apertura di un locale che si facesse forte di una qualsiasi trovata originale (potrebbe essere l'importazione dell'immondo Fernet con Coca dall'Argentina facendolo passare come specialità italiana) per attirare l'attenzione dell'allocco modaiolo di turno e capace di essere contagiosa e fare proseliti tra i consimili, un'autentica attività da "spennagrulli" da mettere in piedi con determinazione feroce quanto l'idiozia delle vittime, facendone strame. Naturalmente per mancanza di fondi (e di stomaco: un eccesso di moralismo) non se ne è fatto nulla, e ora forse è troppo tardi, perché perfino la stupiditá e la puzzoneria prima o poi trovano dei limiti in natura. Infine anche i prezzi, in generale, a Sampa, sono milanesi: dai trasporti al cibo, ogni cosa costa il doppio o il triplo che nel resto del Paese, perfino del ricco e civile Sud, e comunque più che a Rio, che pure vive di turismo. E a differenza di Rio, dove le favelas non solo si vedono ma hanno finito per fare parte del panorama urbano, però hanno quando appena possibile almeno degli elementi in muratura, qui sono ben nascoste, specialmente al di sotto o a ridosso dei viadotti, e sono dei veri accampamenti di solo cartoni, lamiere e, quando va bene, compensato. Nella città dove abitano i brasiliani più sfacciatamente ricchi c'è insomma anche la peggiore miseria e in quanto a criminalità e pericolosità, San Paolo ha ormai superato perfino la metropoli carioca. Come Milano, anche Sampa è abile a nascondere la spocrizia sotto il tappeto e come Milano afferma di amare l'arte e sente il bisogno di ripetersi questo mantra ed altri supposti primati, in un rito di autosuggestione stucchevole ma necessario, perché alla fine non ci crederebbero più neppure i suoi solerti pierre sempre creativamente all'opera nel propalare frescacce. Insomma, abbiamo trasferito ai Tropici e nel Terzo Millennio la mai dimenticata e da molti rimpianta Milano da Bere dei mitici anni Ottanta: potenza della cialtroneria! Fighetta di tutto il mondo, Sampa è la vostra meta!

giovedì 6 dicembre 2007

A querela do Brazil

PARATI (o PARATY)/RJ - Per chi si fosse chiesto dove fossi finito, eccomi in uno dei posti più straordinari di tutto il Brasile. Nemmeno 20 mila abitanti, di origini indio-guiana, la cittadina si è sviluppata verso la fine del XVII secolo perché tappa obbligata tra Rio de Janeirio e le miniere di oro e diamanti del Minas Gerais: da qui partiva l'unica strada, per quanto insicura, in origine un sentiero indio, che conducesse dalla costa attraverso la Serra do Mar all'interno, verso la valle del rio Paraíba e Guaratinguetá, quindi a Ouro Preto e Diamantina. Fra il 1720 e il 1730 la sua importanza venne meno in seguito alla costruzione di una strada alternativa, più sicura e veloce, che avrebbe collegato Rio e il Minas attraversando la Serra dos Orgãos e risparmiando un paio di settimane di cammino. Nell'800 si riprese grazie all'esportazione del caffè. Parati (o Paraty: la grafia è una questione aperta e dibattuta  al pari di quella su Brasil o Brazil: irrisolvibile e quindi superflua) riunisce le caratteristiche di una città coloniale perfettamente conservata con un'ambientazione mozzafiato, e soprattutto è riuscita a non snaturarsi nonostante sia meta turistica fra le più conosciute del Paese. La ragione sta anche nel suo isolamento: solo nel 1954 fu collegata alla Statale Costiera che da Rio porta a Santos, e quindi a São Paulo, e fino ad allora era raggiungibile soltanto dal mare. Rimasta comunque piuttosto appartata divenne, dopo l'instaurazione del regime militare nel 1964, anche rifugio di un folto gruppo di intellettuali dissidenti, che qui non venivano perseguitati: una specie di porto franco, che ha contribuito a conferire a Parati un'atmosfera del tutto particolare, impedendole, per fortuna, di essere devastata dagli aspetti più degradanti della commercializzazione più bieca e dello sputtanamento turistico. Situata nella celebre Costa Verde, dove la rigogliosa Mata Atlantica entra direttamente nell'oceano, in una scenografia naturale molto simile a quella di Rio ma miniaturizzata e senza il suo asfissiante contorno urbano, nei dintorni della baia di Parati sono disseminate 65 isole e circa 300 spiagge, di tutte le dimensioni e per tutti i gusti. Centro storico rigorosamente chiuso al traffico veicolare salvo per i carretti trainati da asini e cavalli, e non a scopi turistici; pavimentazione a ciottoli irregolari (qui chiamati pé de moleque, dal nome di un dolce caratteristico, una specie di torroncino di arachidi); oggi la città è rinomata per l'eccellente cachaça, l'acquavite di canna che è il liquoore nazionale (base per la caipirinha), prodotta in innumerevoli distillerie artigianali in mille varianti diverse: ottima la "Gabriela", ispirata al film di Marino Barreto Junior, protagonisti Sonia Braga e il compianto, grande Marcello Mastroianni, del 1983, tratto dal celebre romanzo di Jorge Amado e girato proprio qui. Cachaça al gusto di garofano e cannella, davvero particolare: si direbbe l'essenza del Tropico! Le case sono rigorosamente a due piani, facciate in calce abbagliante, gli infissi pitturati in colori intensi: prevalente il blu, ma anche il rosso, l'ocra, il giallo. Mi diceva qualcuno che è stata una delle prime città in Brasile adessere costruita secondo un piano regolatore ben preciso: grosso modo si tratta di 5 isolati per 7, delimitati da un ruscello e dalla baia, ma diposti in modo irregolare nella loro regolarità, con curvature improvvise, angoli morti, spazi non prevedibli, soprattutto da nessun ingresso di strada se ne vede la fine, con l'effetto di disorientare e creare l'impresione di una specie di labirinto, più apparente che reale. "Ragioni startegiche", mi hanno detto, non spingendosi oltre. Immagino per consentire a truppe militari di nascondersi nei luoghi più oppurtuni per sorprendere e respingere gli assaltanti ai trasporti di oro e pietre preziose. Turisti che ancora scarseggiano, in questo periodo, l'unico aspetto negativo di questo soggiorno sono le infelici condizioni meteorologiche: sono le "aguas de março fechando o verão" a chiudere la stagione estiva, normalmente, appena passata la sbornia del Carnaval, come recita la celebre canzone di Tom Jobim, resa un capolavoro assoluto nella interpretazione della indimenticabile, grandissima Elis Regina. E invece a rendere incerto l'inizio di quest'estate 2007/2008 abbiamo gli acquazzoni e la nuvolaglia decembrina: mai successo per un periodo così lungo!

domenica 2 dicembre 2007

Il Sud: l'altro Brasile

SÃO PAULO - A conclusione di questo mio percorso nel Brasile meridionale, il Paese che non ti aspetti, esemplificato dalla piacevole, verde, efficiente e vivibile città di Curitiba, che ho lasciato quasi con dispiacere, vorrei avanzare alcune ipotesi sulla diversità di queste regioni rispetto alle altre e sulla loro tradizionale impronta progressista, a differenza di quelle del Nord più povero ed arretrato. Una prima ragione sta nella imigrazione europea e nella mancanza di latifondi. Vero che il resto del Paese era stato colonizzato dai portoghesi, ma lo sfruttamento delle risorse era, appunto, di tipo coloniale. Burocrazia statale da un lato e grandi proprietari terrieri dall'altro, i "colonnelli" di cui parlava Jorge Amado nei suoi primi romanzi come Il paese del carnevale, Cacao, Sudore, Jubiabá, Terre del finimondo. Con le fasi delle monoculture, prima il cacao, poi il cotone, poi la canna da zucchero, poi il caffé, che hanno avuto effetti disastrosi sia sulla fertilità dei terreni sia sui prezzi delle materie prime, a tutto danno dei Paesi produttori, in più grazie al ricorso al lavoro degli schiavi (il viavai delle navi negriere da e verso il Brasile è stato superiore a qualsiasi altra rotta al mondo). Al contrario, gli spopolati Stati del Sud, Rio Grande, Santa Catarina e Paraná, ma in buona parte anche San Paolo e Minas, hanno avuto una immigrazione quasi esclusivamente europea, italiana e tedesca in particolare ma anche dall'Euoropa dell'Est, Polonia e Ucraina soprattutto. Che ha portato tecniche di produzione e attrezzature qui sconosciute, permesso la creazione di un tessuto di piccole aziende agricole (e poi artigianali, e quindi industriali) a conduzione famigliare, con l'utilizzo del lavoro salariato al posto degli schiavi (già vi ho accennato rispetto alla costruzione della ferrovia Curitiba-Paranaguá). Ma soprattutto, a mio parere, può aver giocato un ruolo decisivo anche lo spirito pionieristico di questi immigrati rispetto a quello burocratico e redditiero del Nord e poi di Rio stessa, quando divenne capitale al posto di Salvador (aspetto che ai carioca viene rimproverata ancora oggi dagli industriosi paulistanos). Le condizioni per un rapido sviluppo e poi industializzazione di questi Stati, San Paolo in testa, erano dunque ideali, considerando anche che qui c'è tutto: da clima e terreno, che consentono ogni tipo di coltivazione e allevamento, al fabbisogno energetico. Anche la distribuzione del reddito è sempre stata molto più equilibrata nel Sud che non nel resto del Paese, il che ha permesso negli ultimi decenni di ottenere i tassi maggiori di decremento della povertà di tutto il Paese (a cui fanno riscontro quelli di alfabetizzazione pressoché completa e standard sanitari elevati). Non va dimenticato il ruolo-guida svolto dagli Stati e dalle strutture pubbliche, qui realmente sotto controllo democratico, anche nel micromiracolo economico in corso dagli anni 90 che, favorendo con incentivi e micro crediti lo sviluppo di piccolissime imprese famigliari, soprattutto nel campo della trasformazione (piccoli allevamenti, uova, marmellate, salse) e dell'artigianato (mobili, oggettistica in genere), il loro consorzio in cooperative e la loro collaborazione nella distribuzione, nonché gli investimenti in infrastrutture, hanno consentito l'uscita di interi strati di popolazione da un'economia di pura sussistenza. Un esempio non così facile da seguire in altre zone del Paese che hanno una storia e una struttura ben più refrattarie a uno sviluppo equilibrato e a favore di tutti e non solo di pochi. 

venerdì 30 novembre 2007

La ferrovia assassina


CURITIBA - Gradevole gita fuori città, ieri, con il Serra Verde Express, lungo una storica tratta ferroviaria: la linea che collega, per un totale di 120 chilometri, la capitale dello Stato con Paranaguá, sulla costa, che divenne, dopo la sua inaugurazione, il secondo porto per movimentazione del Brasile e il primo per quanto riguarda le granaglie. Progettata nel 1880, orgoglio dell'ingegneria brasiliana anche perché principalmente opera di due bahiani, per di più neri, a esempio dell'avenuta integrazione quando ancora non era stata abolita ufficialmente la schiavitù (1888), fu costruita in soli cinque anni, grazie al fatto che furono affrontate in contemporanea tre tratte: da Paranaguá a Morretes, in salita ma abbastanza lienare, di 42 chilometri; da Morretes a Roça Nova, lungo la costa della Serra do Mar: di 38 chilometri, la più ardua; e infine da Roça Nova a Curitiba, sull'altipiano, 30 chilometri sostanzialmente pianeggianti. In totale 14 tunnel, scavati senza quasi ricorrere alla dinamite, 30 ponti e innumerevoli viadotti, tra questi davvero notevoli quelli sul fiume São João e quello di Carvalho, all'uscita di un tunnel, poggiato su una struttura in tubi di ferro fatti giungere appositamente dal Belgio. Ma l'aspetto più impressionante è il numero di lavoratori impiegati, quasi tutti emigranti europei, tra i 9 e i 10 mila, e ancora di più quota di essi che ci hanno lasciato la pelle: oltre la metà, a causa principalmente delle condizioni ambientali avverse incontrate nell'opera di disboscamento della foresta vergine (spesso per morsi di serpenti, oltre che per le malattie tropicali) e per le esplosioni non controllate della dinamite, il cui uso era ai tempi ancora in fase sperimentale e usata soltanto negli ultimi tempi dei lavori, ma con esiti letali. Viaggio a una media di 30 chilometri orari, spesso sospesi nel vuoto, spettacolare soprattutto la parte centrale del percorso, quando si supera un dislivello di circa sei metri per chilometro superando canyon e in costa alla montagna, compiendo anche curvature di 90 gradi seguendone la linea. Notevole anche il cambiamento di clima tra costa e altipano: quando a Curitiba la sera è saggio mttersi un golf perché la temperatura non supera i 12 gradi, in questi giorni anche con vento, nel mezzo della "Mata Atlantica" i trenta gradi si raggiungono in fretta ma con un'umidità del 90%, e solo sulla costa mitigati dalla brezza marina. Morretes, 20 mila abitanti, ancora di impronta coloniale, è rimasta una stazione turistica (la linea è gestita da una socitetà che compie sia trasporto merci, sia di persone, ma queste solo a scopo turistico) ed è famosa soprattutto per le banane, peraltro squisite, da cui si ricava tutto, dalle fibre tessili all'acquavite; e la cioccolata. E poi per un piatto francamente discutibile, il "barreado": uno stracotto di parti di manzo dure e filacciose che vengono cucinate per oltre 24 ore per ammorbidirle (senza esiti decisivi, a mio parere), che vanno mischiate con la farina di manioca e ammorbidite col brodo di cottura, in modo da ricavarne un pastone in cui deve rimanere in piedi la forchetta, per poi essere "guarnito" con banane affettate, e fin qui va bene, ma anche con un sugo a base di gamberi, e inoltre gamberoni e pesce impanati. Come soluzione per il pranzo, come ingoiare del cemento con un accostamente direi arduo. Per aprire lo stomaco e far dimenticare prima di mangiare, non a caso, ti danno da bere della cachaça. Antonina è la stazione che si trova appena arrivati sulla costa, ed era stato un porto importante nelle epoche successive dell'erba mate, poi del legno e infine del caffè, e ha un aspetto prettamente portoghese, per la precisione azzorriano (come alcuni borghi dell'isola di Santa Catarina, del resto), mentre ora tutte le attività portuali sono state spostate nella vicina Paraguaná, tranne una: l'esportazione di pollame per i mercati arabi, grazie a un accordo con i sauditi, mi pare di aver capito. Poiché questi non volevano correre il rischio di contaminazioni con altre merci che passano attraverso Paraguaná, hanno concesso l'esclusiva al porto di Antonina costruendo anche un impianto di macellazione secondo i rituali del Corano. Rivolto, dicono, verso la Mecca. Per la barba del Profeta e per la gioia degli abitanti di Antonina!

mercoledì 28 novembre 2007

Curitiba, la città sociale

CURITIBA - Eccomi finalmente nella "capitale ecologica", la città del sorriso brasiliana che già negli anni Settanta aveva cominciato a ripensare e riprogettare sé stessa, sotto l'impulso del suo sindaco di allora, Jaime Lerner, poi diventato anche governatore dello Stato del Paraná. Tutte le mie aspettative, che erano molte, sono state non solo confermate ma ampiamente superate: non pensavo che la vera e propria "rivoluzione culturale" che questa città e i suoi abitanti hanno messo in moto (e che continua) avrebbe prodotto dei risultati così positivi e duraturi. Comincio col dire che Curitiba non è una città bellissima, non è in una posizione splendida come Rio e non ha le attrattive di San Paolo. Ha circa 1.800 mila abitanti (come Milano, prima dell'inizio della sua decadenza, proprio a partire dagli anni Settanta), posta su un altipiano, la separa dall'Atlantico la Serra de Mar che si intravvede all'orizzonte. Città industriale (autoveicoli) e centro commerciale e finanziario (seconda piazza d'affari solo dopo San Paolo), d'atmosfera cosmopolita, non è il consueto reticolato di vie poste in perpendicolare, ma ha piazze, viali alberati appena è possibile, e dove non è prevista sosta per le auto, slarghi: ogni spiazzo è occasione per creare un angolo verde, usufruibile per sedersi, riposarsi, guardarsi attorno o leggere il giornale. L'arredo urbano è adeguato alla bisogna: comode panchine ergonomiche, rigorosamente in legno, disegnate da qualcuno che pensa davvero al loro utilizzo, fioriere, tettoie per ripararsi dagli acquazzoni. Con queste premesse, il rispetto del verde - 52 metri quadrati per abitante - viene da sé. I parchi sono numerosi e curatissimi, quelli in periferia (ma facilmente raggiungibili) enormi. La città possiede la prima isola pedonale del Paese e nel 1991 ha persino inaugurato, su iniziativa della municipalità e con una serie di agevolazioni, una Rua 24 Horas (attualmente chiusa per manutenzione), aperta 24 ore su 24, con ristoranti, librerie, postazioni internet gratuite. Nella centrale piazza Osorio si trova perfino un padiglione in vetro e tubolari con bar, edicola e postazioni fisse per i lustrascarpe, al coperto e dignitose. Sembrano dei barbieri. Naturalmente uno dei primi interventi è stato quello di abolire le barriere architettoniche. E perfino le postazioni internet (gratuite quelle del Comune) sono adattate per gli hanicappati. Con una serie di misure incentivanti è stato recuperato completamente il centro storico, e protagonisti sono anche i cittadini grazie alla legge municipale di incentivo alla cultura, che prevede il trasferimento di parte dei tributi locali da parte dei contribuenti a favore del patrocinio di particolari progetti culturali; ma più importanmte ancora è stato l'intervento sulla viabilità, con una rete di trasporti integrati che sono perfino venuti a studiare gli scandinavi, grazie sempre a un sistema di partecipazione dal basso: da un lato sull'indicazione delle scelte da finanziarie prioritariamente, dall'altro anche sul merito dei progetti. Questa è anche la città che ha inaugurato un metodo di formazione partecipata del bilancio municipale (che è stata ripresa con successo anche a Porto Alegre). E' un esempio, a mio parere, di cosa significa pensare al futuro conservando e riqualificando il passato; della capacità di vedere avanti e di coinvolgere i cittadini; di civiltà come percorso educativo e formativo; di come diventare civili (e cives) rendendo civile lo spazio urbano. Mettendo in moto un circolo virtuoso per cui una città civile e vivibile genera cittadini civili e partecipanti che la mantengono tale e la proiettano nel futuro. Quasi superfluo aggiungere che anche per quanto riguarda lo smaltimento dei rifiuti Curitiba è all'avanguardia, e la raccolta differenziata si fa con precisione maniacale. A coronamento di tutto questo, e di una serie di musei, teatri, spazi per ogni manifestazione artistica immaginabile, una perla che secondo me da sola vale il viaggio qui: il Museo Oscar Niemeyer dedicato in particolare alle arti plastiche ma non solo: al geniale architetto brasiliano che proprio quest'anno compie i 100 anni, vivo e vegeto, e che ha progettato questo incredibile gioiello, sono anche dedicate due splendide mostre attualmente in corso (poi ce ne sono una di fotografia, una di disengni, due di pittura e tre di scultura). A un primo elemento, progettato ne 1967 e chiamato Castello Branco, un rettangolo bianco di 205 metri per 44 ma con i tipici elementi curvilinei nelle rampe, nel 2002 Niemeyer ha posto di fronte l'Occhio, un ovale schacciato di 70 metri di lunghezza per 10 di altezza piazzato su una torre di circa 20 metri e che può ricordare E.T. Con le tonalità nere della "pupillla" (una gigantesca vetrata schermata) e il pilone giallo dove ci sono anche delle figure femminili lievissime uscite dalla fantasia dell'architetto-pittore. Il tutto su uno specchio d'acqua. Quando l'architettura diventa poesia!

domenica 25 novembre 2007

Ein Prosit!


POMERODE - Pur con qualche difficoltà di spostamento, sono alla fine riuscito a raggiungere quello che viene considerato il cuore profondo del Brasile teutonico, qui nello Stato di Santa Catarina, un luogo dove, secondo dati ufficiali, l'80% della popolazione parla ancora il tedesco come prima lingua. Una trentina di chlometri da Blumeneau, nel mezzo di una fertile regione collinosa e verdeggante, e particolarmente umida, dedita al pascolo e all'agricoltura in piccoli appezzamenti, ecco questo paesone piatto, che a metà di un pomeriggio domenicale afoso non brulica certo di vita. La ragione della conservazione della lingua a tutt'oggi, sta nel fatto che Pomerode, oltre ad essere rimasta a lungo pressoché isolata nella zona per mancanza di strade decenti che la colegassero al capoluogo, ha avuto una immigrazione omogenea sia per provenienza (la Pommerania, sul Mar Baltico) sia per religione, luterana. Il dialetto comune non ha reso il portoghese necessario come lingua franca, e il tedesco come lingua di culto è stato il canale essenziale per sua preservazione dopo il divieto, nel secondo dopoguerra, di pubblicazione e insegnamento in tedesco. E' da tenere presente che prima del 1945 esistevano scuole costruite e gestite da coloro che furono i pionieri, i deforestatori di una selva vergine, e i creatori di ogni struttura e infrastruttura, da queste parti, da quasi un secolo. Fu dunque una misura assolutamente ingiusta, presa per essere più realisti del re e compiacere, magari nemmeno richiesti, l'amico nordamericano. Questo mi è stato detto ieri al Mausoleo al dottor Blumenau, ma me l'ha ripetuto questa mattina anche un arzillo ottantacinquenne che mi ha bloccato alla fermata del bus, individuandomi come "compaesano" proveniente dalla Vecchia Europa, e che mi ha raccontato di una vera e propria persecuzione, all'epoca. La cosa che lo offendeva di più, mi diceva, era il fatto che dopo la guerra li considerassero dei nazisti, non conoscendo né la loro storia né quella del posto. "Ma esisteva un partito nazista, proprio qui a Blumenau", gli dico di aver saputo, ed è stato sciolto, giustamente. "Sì ma quello che non le hanno detto è che ne erano membri anche se non soprattutto dei brasiliani autentici. E poi cosa c'entrava tutto il resto della comunità, quando siamo stati noi a costruire tutto, anche per gli altri, dalle scuole, ale biblioteche, ai municipi, a tutti gli edifici pubblici, alle chiese? E secondo lei proprio noialtri prussiani, e luterani, che siamo venuti qui per rendere abitabile un posto fino ad allora invivibile, potevamo avere simpatia per quel farabutto di Hitler, di cui mi vergogno ancora adesso?" Penso a misure di assorbimento forzoso e omogeneizzazione dello stesso tipo prese da Mussolini in Sud Tirolo (e piantiamola una buona volta di chiamarlo Alto Adige) e nella Venezia Giulia dopo la Prima Guerra Mondiale con l'italianizzazione forzata e quel che ne è conseguito, soprattutto in Istria, come vendetta proprio dopo il 1945. Qui ovviamente la situazione è diversa. Tornando all'amena Pomerode, non è un gran ché, ma è il centro amministrativo, commerciale e produttivo di tutta una regione a vocazione agricola. Ho notato numerose segherie e attività artigianali legate al legno, una fabbrica di porcellana piuttosto grande, e un'altra di generi alimentari. In gran numero i maggiolini e maggioloni d'epoca perfettamente funzionanti, tenuti e venerati come reliquie, dai colori il più tipicamente tedeschi possibile (da ogni genere di tinta pastello ai blu cobalto e al verde pisello e al marrone testa di moro, rarissimo), ma anche pullmini VW anni Sessanta. Il parco-macchine più al passo coi tempi è costituito, guarda caso, ancora  in prevalenza da VW e Audi, tutt'al più da affidabili Ford. Ma la perla di Pomerode è la birreria artigianale Schornstein, che mi ripaga ampiamente del deserto torvato nella cittadina non solo per la qualità dei prodotti (una Pilsen non filtrata, un'altra chiara, una Pale Ale sapida e infine una Bock profumata) ma per il programma previsto per la domenica pomeriggio: un duo chitarra e organo elettrico in braghe corte di cuoio con bretelle intarsiate, camicia bianca, calzettoni che sembrava uscito dalla Clinica della Foresta Nera (notare che con la Pommerania questo tipo di abbigliamento non c'entra nulla). Stupendi. Ad alternarsi al canto, insieme a loro, come voce femminile prima una delle cameriere (per sua fortuna non nel tradizionale "dirndl" delle kellerine bavaresi, che pesa dieci chili e necessita di una quarta abbondante di "davanzale", di cui la creatura in questione era sfornita), più stonata di mio cugino Ado, che è un caso di studio, e una bambina sui 10 anni travestita da vamp ma dalla voce più possente e intonata della prima (una specie di Amy Winehouse). Il programma, autentica musica alemã ("come ogni domenica". Ogni, maledetta domenica!). Cantata in portoghese ma talvolta pure in tedesco, come l'indimenticabile "Es geht nach Blumenau/Es ist der Himmel blau" che rimarrà scolpita per sempre nella mia memoria. Indimenticabile. Sono rimasto senza parole per oltre un'ora e mezzo e non credevo alle mie orecchie. Doveroso un Prosit! anche a Pomerode e alla benemerita Schornstein!

sabato 24 novembre 2007

I ragazzi venuti in Brasile

BLUMENAU - La sensazione di straniamento che si ha arrivando qui fa per forza parafrasare il titolo del famoso e inquietante film sugli esperimenti effettuati dal dottor Mengele al fine di duplicare il Führer. I coloni che, gudati dal dottor Hermann Bruno Otto Blumenau dal 1850 hanno dato vita, nella valle del fiume Itajaí, alla città dedicata al fondatore, sono sicuramente riusciti nell'intento di ricreare una Germania nell'emisfero australe, nel luogo più caldo e umido di tutto il Brasile meridionale, con punte amazzoniche. Il dottor Blumenau aveva fatto richiesta all'allora imperatore del Brasile di poter fondare una colonia agricolo-indutsriale nella vallata e gli è stata prontamente concessa l'autorizzazione. A parte i pionieri, può stupire come sia riuscito a convincere tanti suoi connazionali a trasferirsi proprio nel luogo dal clima più infelice di tutto la Stato di Santa Catarina, comunque già ampiamente popolato da teutonici. Abbondano le facciate con le tipiche intelaiature di legno a vista, materiale che domina comunque anche gli interni, i caratteristici tetti, i balconi fioriti (benché non di gerani), le confiterías con monumentali Schwarzwälder Torten, strudel e altri dolci con abbondante panna montata; ben 7 birrerie artigianali nella regione, oltre a quelle tradizionali: per me, devoto alla sacra bevanda, una specie di paradiso da cui sono rimasto affascinato. La gastronomia è ovviamente tipicamente tedesca, per non parlare dei volti degli abitanti: almeno uno su due è biondo e nessuno ha perso, dopo generazioni, la tipica erre grattugiata (che differisce da quella moscia dei brasiliani, simile a quella francese). E io, che per metà sono crucco, mi sento finalmente a casa. Naturalmente la città (250 mila abitanti circa) è tirata a lucido, esemplarmente ordinata, semafori e strisce pedonali vengono rispettati ossequiosamente, nessuno si sogna di suonare il clacson e, però, al pomeriggio del sabato quasi tutti i negozi sono chiusi. Il fine settimana è sacro, la birra anche, e i numerosi Biergarten, alcuni con una splendida vista sul fiume, sono invasi da gente di tutte le età. Con tanto di allegre e rumorose marcette che sono di rigore in una qualsiasi situazione conviviale teutonica e fanno parte del DNA di ogni buon tedesco. Ascoltare la versione in portoghese delle canzoni da birreria è un'esperienza esilarante. Non poteva mancare la Oktoberfest, che non è una semplice imitazione in chiave disneyana di quella monacense (e si tiene nella stessa epoca) ma una cosa seria, tanto da essere per dimensioni la seconda festa di strada del Brasile nientemeno che dopo il Carnevale di Rio. Si parla quindi di centinaia di migliaia di persone che per tre settimane trasformano la tranquilla Blumenau in una baldoria colossale. Oltre agli edifici, decisamente esotici per questo Paese, e a un ovvio Museo della Birra, prontamete visitato, un'altra istituzione curiosa, creata da una nipote del dottor Blumenau, Edith Gaertner: il cimitero dei gatti. Putze, Bum, Musch, Mirko, Mirl, Pepito, Peterle, Schnurr, Sittah hanno tutti il loro tumulo in pietra con tanto di iscrizione nel bel mezzo di un folto giardino botanico alle spalle dell'abitazione della gentile signora, protettrice appassionata degli adorabili, piccoli felini. Ciò che a Gramado, che giusto una settimana fa avevo definito la Ponte di Legno dei Tropici, risulta posticcio fino a renderla fastidiosamente grottesca oltre che irritante, qui invece finisce per essere autentico, gradevole, e perfino le luminarie natalizie non sembrano fuori luogo sapendo quanto ci tengano in genere i tedeschi. Ein Prosit a Blumenau, ai mici e in alto i boccali, dunque!

giovedì 22 novembre 2007

Il "culo" del Brasile/2 - Una dimostrazione pratica

FLORIANÓPOLIS - Qualificazioni ai Mondiali 2010 in Sud Africa. Alle 21.45 di ieri Brasile-Uruguay. Stadio Morumbí di San Paolo, tutto esaurito: (si guardano bene dal disputare l'incontro con la Celeste al Maracaná di Rio, perché già nel 1950 gli uruguagi hanno uccellato alla grande i verdeoro, punendoli per la presunzione di credere di aver già vinto il Mondiale prima ancora di giocarlo, e per di più in casa). Vedo la partita al "Botequim de Floripa", tra un chop e l'altro di ottima Brahma, ed essendo l'unico che simapatizza per gli orientales vengo subito preso per uruguagio o argentino (ma devo ammettere che i brasiliani sono tifosi socievoli e poco aggressivi). Ora: io sostengo da sempre che la Seleçao, almeno a partire dagli anni Settanta, è esageratamente sppravvalutata, come tutto il calcio di questo Paese. Sarà anche divertente vedere le partite dei loro campionati (peraltro giocate spesso a stadi vuoti) che finiscono 7 a 5, ma non è football bensì oratorio: semmai semmai segno di insipienza e dabbenaggine calcistica. Non credo comunque ai miei occhi quando vedo l'Uruguay giocare una partita da manuale. Al 15' è in vantaggio con un colpo di testa del centravanti Abreu alla terza palla-gol. Palla che gira a due tocchi e via (il sogno di Mancini), centrocampo manovriero e tecnico, difesa tradizionalmente tignosa e corrazzata ma corretta, punte rapide. Possesso palla 60% a favore degli uruguagi, altre 8 occasioni da gol chiarissime, tutte nello specchio della porta, 3 clamorose. Julio Cesar fa i miracoli, il Brasile, letteralmente, barcolla. Al 44'50" (nel momento peggiore per subire il pareggio) un passaggio sbagliato dalla linea di fondo di Luis Fabiano diretto verso il centro dell'area finisce sul palo, carambola su una coscia del portiere (Fabian Carini, mitico terzo portiere dell'Inetr negli anni scorsi) e gli passa tra le gambe. Golaçooooooooo sbraitano fuori di sé i cronisti di Globo TV (quanto di più simile a Pellegatti quando su Mediaset trasmettono il Milan, la squadra del padrone, e segna il tarantolato Inzaghi). Culaço! Impreco io. Gli astanti neanche esultano, tirano tutt'al più un sospiro di sollievo. Un cameriere si avvicina e mi consola una pacca sulla spalla: "Più culo che anima. Questa non è più la seleçâo, è la squadra di rappresentanza della Nike. Da dove crede che entrino i soldi alla CBF? (la Federcalcio brasiliana)". Nel secondo tempo gli uruguagi non si arrendono, il Brasile quasi non tocca palla, i suoi celebrati campioni combinano poco. Perfino Kaká fa una sola azione in tutta la partita: micidiale, di corsa 50 metri palla al piede ma nessuno dei suoi lo segue e così, affranto, si tuffa alla Dibiasi da tre metri fuori dall'area direttamente dentro. maca di poco il dischetto: neanche Carl Lewis. Naturalmente l'arbitro non lo ammonisce per simulazione ma almeno non da il rigore. In compenso rifila tre o quattro gialli immotivati ai celestes, che continuano a macinare gioco e occasioni da rete anche dopo aver subito il 2 a 1 al 20', sempre da parte di Luis Fabiano, questa volta una girata di destro irreprensibile. Anche se il vantaggio non è per nulla meritato. Ronaldinho, che mi fa girare gli zebedei appena lo vedo in faccia, con quel nastro da sciampista per tenersi i capelli, ha toccato un solo pallone in tutta la partita e l'ha pure sbagliato, viene tolto al quarto d'ora da Dunga, il CT, che essendo un uomo che ama il calcio pragmatico si vede che lo prenderebbe volentieri a ceffoni e lo sosituisce con un mediano di quelli "operai", tale Josué. Robinho, altro giovine fenomeno pompato a più non posso sia qui sia in Europa, la palla non la tocca nemmeno e viene scambiato con Vagner Love, già visto all'opera con il CSKA a San Siro di recente (un gol alla beneamata, che, svegliata la bestiua che cova in sé, dopo glie ne ha rifilati quattro, con sommo godimento mio, che assistevo da lontano). Ecco: il "culo" brasiliano applicato al calcio. Il solito cameriere, che è uno che di calcio ne capisce, va avanti a spiegarmi che con questi che arrivano già spompati (e pieni di soldi) dall'Europa e che non hanno "fame", la seleção non va da nessuna parte. "Visto che gana (che voglia) che avevano gli uruguaiani? Se vanno avanti così, quell sì che si qualificano. O l"Argentina, anche se ieri ha perso in Colombia. Noi avremo problemi, vedrà". "Sì - gli faccio io - ma anche gli argentini giocano in Europa" (riferendomi a quelli in nerazzurro, che sono metà selección). "Certo, ma tengono cojones". Già: el hombre vertical de la Pampa...

mercoledì 21 novembre 2007

Favelados

FLORIANÓPOLIS - Fin dalla prima volta in cui ho messo piede in Brasile, e in America Latina in generale, mi sono sempre chiesto se da queste parti, oltre allo stato di miseria e necessità che spingeva i migranti dalle campagne nelle città a risolvere in maniera precaria le proprie necessità abitative, ci fosse anche una certa predisposizione a costruire le baraccopoli in una maniera invece che in un'altra; l'esistenza, cioè, di una qualche estetica della favela; nonché la tendenza a renderle definitive, quasi una forma mentis, e quindi un'etica. Sull'argomento in generale segnalo, a chi fosse interessato, i lavori di Mike Davis, urbanista statunitense, autorità mondiale nella materia, in particolare "Il pianeta degli slum", 2006; e "Città morte. Storie di inferno metropolitano", 2004: entrambi editi da Feltrinelli. Parlando di favelas, vengono ovviamente in mente quelle di Rio, che sono conosciute in tutto il mondo. Si sa che hanno occupato man mano tutti i morros (rilievi) liberi, a ridosso dei quartieri centrali che si estendono in prevalenza sul lungomare, e si sono sviluppati dal basso verso l'alto, e tutte con un'erta come spina dorsale, dalle pendenze del 45 de non 55 per cento, robe da muli o da cremagliera. Forse anche per creare un canale di scolo per i liquami, ma con l'inevitabile coseguenza che in occasione di un fortunale tropicale più intenso del solito, spesso vengono giù rioni interi a causa sia del tipo di costruzioni sia del terreno franoso. La stessa struttura si osserva a Caracas, Bogotá e La Paz, dove sono le baraccoli a dominare dall'alto il centro e i quartieri di classe media o alta. Sono tutte città che hanno una conformazione per certi aspetti simile, con alture vicine se non all'interno dell'area urbana. Ma l'idea di una predisposizione mi è venuta osservando il modo di costruire qui sull'isola di Santa Catarina, dove problemi abitativi non ce ne sono e quindi nemmeno baracche, eppure sembra che abbiano il vizio di occupare ogni collinetta sempre con lo stesso schema, alle spalle della città e ovunque si presenti l'occasione, partendo dal basso e sviluppando la mulattiera in verticale. Parlo di case nuove, villette anche graziose, spesso sostenute da imapalcature a palafitta. Mi è tornato alla mente che molti abitanti di quest'isola sono originari delle Azzorre, che se ricordo bene sono isole piuttosto scoscese in mezzo all'Atlantico, e lì questo modo di costruire è una necessità. Forse a Floripa e dintorni è rimasto nei geni. In Europa, al contrario, le città fortificate si sono storicamente sviuppate dall'aalto verso il basso, incorporando man mano il contado. Si sa che a Rio le favelas occupano i punti più panoramici: dunque anche una questione estetica? Riguardo all'altro aspetto, la tendenza a renderle definitive, mi viene in mente quanto mi raccontavano in Venezuela, dove nei primi anni Ottanta, in occasone della prima visita di Woityla nel Paese, aveva il governo aveva costruito interi quartieri di residenze popolari più che dignitose, per cercare di sgomberare almeno il "rancho" più mostruoso e pericoloso (oltre che pericolante), Catia, i cui assegnatari hanno subito subaffittato o rivenduto gli appartamenti, preferendo rimanere nel ghetto. E' evidente che alla base delle baraccopoli vi sia la povertà, l'emarginazione, e la contemporanea incapacità quando non la scelta del potere di non intervenire. Vero anche che diventano veri e propri micocososmi dominati dalla criminalità, totalmente fuori dal controllo dello Stato, come del resto interi quartieri e città nel Napoletano in mano alla camorra, che oltre ad essere teatro di guerre per bande, centrali di spaccio e di ogni altro genere di attività delinquenziale, si reggono su una struttura illegale (che fa sempre capo alle stesse mafie) anche per le attività e servizi "regolari", dai trasporti all'approvigionamento di gas e luce, al commercio. E chi le ha in mano non ha nessun interesse a mollare. Dicono che a Rio alcuni dei più ricchi dela città vivano a Rocinha o Cantagalo, quelle più note, dove è possibile perfino effettuare visite turistiche guidate. E qui viene da domandarsi come sia possibile affrontare il problema. Lula, l'attuale presidente progressista, ha deciso di fare intervenire l'esercito, beccandosi le critiche degli ipergarantisti di sinistra, ma finora i risultati sono scarsi. Risolvere il problema alla base, togliendo dalla povertà intere masse di diseredati è lavoro di lungo periodo, ma nell'immediato cosa si fa? E' un cane che si morde la coda. Intervenire per migliorare, nella migliore tradizione buonista alla Veltroni, rendendo più vivibili le baracche (per quanto riguarda le antenne satellitari e i ripetitori per i cellulari, sono già ampiamente dotate) sembra ridicolo, perché finisce per favorire i criminali che gestiscono già tutto dovendo comunque venirci a patti. Radere al suolo e spostare la gente a forza in nuovi quartieri o in aloggi che ne prendano il posto? Quanti sarebero d'accordo? E dove trovare il denaro per gli investimenti? Per non parlare dei bambini di strada, il fenomeno forse più impressionante, di cui abbiamo avvisaglie anche in Europa, dove l'esempio della Romania coi suoi ragazzi delle fogne è emblematico. Rastrellarli (una parola giacché girano armati, vedi il film di Fernando Meirelles Cidade de deus, impressionante) e farne che? Anche questo è Brasile.

lunedì 19 novembre 2007

Il "culo" del Brasile


FLORIANÓPLIS - Al mio arrivo, ieri pomeriggio in bus, con due ore di ritardo, la nebbia e una pioviggine autunnale, dopo un primo tentartivo a vuoto di fermarmi qui giovedì scorso, ho pensato che in questo posto non tirasse aria per me. Impressione confermata da una perlustrazione a fondo del centro cittadino, alla vana ricerca di cibo: aperte solo una pizzeria, che per quanto dotata di forno a legna mi sono ben guardato dal prendere in considerazione (già i brasiliani, come i greci, cucinano in modo sommario le cose loro, figurarsi quelle d'importazione) e una cachaçería-birreria, con tanto di "buttadentro" con auricolare e pronti alla perquisizione, da cui proveniva un ossessivo drum & bass alla brasiliana, insomma una abberrazione techno in salsa latina che mi ha fatto passare qualsiasi velleità. Rimaneva la lanchonete del terminal dei bus: questo alle 9 di una domenica sera tardo primaverile. Nella capitale di Santa Catarina, un altro Stato di quelli ricchi ed europei del Paese. Probabilmente in un villaggio della provincia norvegese la vita ieri a quell'ora ferveva, al confronto. Si indovinava però già che si tratta di una città benestante, anche rispetto a Porto Alegre, a conferma immediata l'illuminazione stradale e l'assenza quasi totale di senza tetto. Impressione confermata oggi, alla luce del sole, che finalmente è tornato a fare capolino da queste parti. La città è divisa in due parti, collegate da un ponte abbastanza spettacolare: la parte storica e amminsitrativa sull'isola di Santa Catarina, quella commerciale e industriale sulla terraferma. Anche qui un gruppo di case post coloniali e neoclassiche attorno al Mercado Público, e all'edificio della vecchia alfandega (dogana), come a Porto Alegre. Qui la popolazione è d'origine più tedesca che italiana, per cui a maggior ragione mi è saltata all'occhio la moda dello zatterone che letteralmente impazza. Intendo dire che la popolazione femminile è di altezza superiore alla media delle brasiliane, che già non sono generalmente basse, e allora che necessità c'è di vacillare sui trampoli come neanche Freddy Mercury ai tempi d'oro o i repellenti Kiss? Altro capo d'abbigliaimento che va per la maggiore è il fuseaux, ovviamente di puro tessuto sintetico (il Brasile ha auto la conferma in queste settimane di giacere sopra un mare di petrolio, per cui d'ora in poi basta cotone!), che sono riuscito a vedere anche indossato da matrone con deretani e cosce alla Botero, più ancora che rubensiani. Immaginatevi delle lottatrici di sumo impacchettate in tutine viniliche aderenti bianche, lilla o fucsia, in qualche caso con scaldamuscoli annessi. Per quanto, fortunatamente, predomini il nero, che comunque con questi climi non mi pare un'idea geniale. Forse lo fanno per dimagrire... Un altro mistero a proposito delle donne brasiliane sono i reggiseni. Sembrano quelli corrazzati delle nostre nonne o mamme, che andavano negli anni Cinquanta e prima, a triplo strato protettivo, perché sia mai che si intravveda, uno scandalo! la protuberanza di un capezzolo. Parlo sia dell'indumento di lingerie sia di quello da bagno (il topless in Brasile è tabù salvo per i travestiti operati, a tutta evidenza). Non è la prima volta che vengo da queste parti e mi ha sempre stupito questo soprassalto di pruderie in un Paese che vive il sesso come un gioco (troppe volte a sprezzo del pericolo, in verità, vedi diffusione dell'HIV) e che ha inventato il filo interdentale (oltre alle ributtanti infradito) e dove non desta grande scandalo girare con le pudenda al vento. Un Paese basato sul culo, ad esempio nel calcio, sport in cui sono convinti di essere i padreterni senza riconoscere l'assistenza della buona sorte sempre al loro lato, casualmente, e di relativi interessi per miliardi di dollaroni. Ho avuto modo di dare un'occhiata a una libreria, e oltre al predominio dei settori dedicati a esoterismo, auto-aiuto, medicina integrale, religioni e dotrine, spiritismo, new-age, scontato nel Paese che ha dato i natali a Paulo Colelho e che ha sentito il bisogno di sincretizzare una religione già di per sé allucinogena come il cattolicesimo con le credenze spiritiche africane, notavo la profusione di libri sulla gastronomia, considerata la banalità del cibo quotidiano, altra moda d'importazione nordamericana e nordeuropea. Onnipresente, come del resto in Germania, in Scandinavia e in Inghilterra, da dove proviene, il nuovo profeta della tavola, Jamie Oliver, con il suo hit mondiale La mia Italia. Ripeto: questo irridente cialtrone è un britannico e parla e scrive di cucina, spaccia ricette. Italiane. Provinciali come siamo, non metto in dubbio che presto verrà lanciato alla grande anche da noi (ammesso che non sia già avvenuto) e avrà il meritato riconoscimento, con tante comparsate televisive a reti unificate RAI-SETe gettoni di presenza, ricchi premi e cotillons. Promettente un altro titolo che ho visto campeggiare, di tale Simon Woods, probabilmente uno yankee, stavolta: Io non mi intendo molto di vino, ma so quel che mi piace. Programmatico, non c'è che dire. Siccome però Floripa (così la chiamano i locali, confidenzialmente) ce l'ha un po' su con me, anche con la città in piena attività è stato problematico trovare un posto in cui ingollare qualcosa a pranzo, per via di un paio di congressi che hanno, come ovunque, la precipua funzione di riempire all'inverosimile alberghi e ristoranti in un periodo di stanca di gente con un cartellino appeso al collo, per cui, grazie all'efficientissimo servizio pubblico, mi sono dislocato verso la costa a Sud-Est dell'isola, decantato dalla solita Lonely Planet come alternativa alle spiagge brulicanti (?) e troppo urbanizzate del Nord e a quelle dalle onde troppo vivaci meta dei surfisti più selvaggi (tatuaggio, bandana, bragha a mezz'asta e iPod incorporato): "montagne che si tuffano nel mare", "paeseggi spettacolosi". A prescindere che in tutta l'isola non esiste un rilievo che superi i trecento metri d'altezza, arrivo dunque a Pântano do Sul. I miei ricordi sono corsi a Baia Domizia, tardi anni Settanta, metà maggio. Tre chilometri di spiaggia deserta, battuta dal vento. Mare livido in una giornata di sole. Onde poco rassicuranti nonostante si tratti di una baia protetta (è un borgo di pescatori originari delle Azzorre, questa l'unica vera attrattiva: sanno come si cucina il pesce, da bravi portoghesi, e si magia bene!) e sicura presenza di correnti inssidiose. Sulla siaggia, una decina di persone che camminano avanti e indietro, decisamente svaccate, qualcuno pesca con la canna dalla riva, una muta di cani, squadriglie da combattimento di gabbiani ma anche di una specie di cornacchioni neri alquanto raccapriccianti. Poche pousadas (pensioni) lontane anche un paio di chilometri dal "centro" (una fermata di bus e un piccolo supermercato), quasi tutte ancora fuori esercizio, e 7-8 baracchini sulla spiaggia. Fine delle trasimissioni. Accennavo prima a un Paese spesso "basato sul culo" e che, al di là della indubbia simpatia e ospitalità dei suoi abitanti, e della miscellanea etnica che sono le grandi qualità positive, gode di una spropositata buona stampa. Come i francesi, i brasiliani sanno vendere bene il loro prodotto, che siano le bellezze naturale (spesso esagerate) l'allegria (spesso finta) la musica (spesso pallosa e di basso livello) il calcio (spesso palloni gonfiati) le belle donne (spesso ritoccate, e non così belle, ancora più spesso infelici) Lula (un inconcludente, probabilmente un inetto) e a loro vantaggio c'è che non sono altrettanto odiosi e supponenti (come invece riescono a rivelarsi i miei amici e parenti argentini). E non credo che questa benevolenza a tutti i costi sia una cosa positiva. A proposito, c'è qualcuno che vuole una Lonely Planet quasi intonsa?

sabato 17 novembre 2007

Ponte di Legno tropical

GRAMADO/CANELA - Siccome le precedenti esperienze latinoamericane in questo senso non mi sono bastate, ho pensato bene di aggiungere al mio carnet di orrori questa località che la "Lonely Planet" definisce un'elegante località montana di villeggiatura e gli indigeni come naturalmente europea. Appurato definitivamente che i curatori della celebre guida (che per altri aspetti si rivela tutt'ora utile e quasi necessaria), per l'edizione dedicata al Brasile, devono essere o degli gli abitanti delle pianure del Midwest nordamericano in preda agli allucinogeni oppure degli australiani strettamente imparentati coi canguri e in crisi mistica, posso perdonare i nativi e i turisti che affollano questo luogo anche dalle nazioni vicine, ma non coloro che hanno messo in piedi questo Circo Barnum, ossia i nostri connazionali, prevalentemente del NordEst, e i tedeschi, che pure una qualche idea di cosa siano le montagne dovrebbero averla avuta, centocinquanta anni fa, quando vennero a colonizzare questi ameni luoghi. Gramado è quanto di più simile si possa immaginare a Ponte di Legno, un prototipo di non-luogo, stazione sciistica e di villeggiatura estiva della Bergamasca partorita da menti perverse negli anni Sessanta in piena furia da speculazione immobiliare, e scelta non a caso dallo stato maggiore leghista come patria d'elezione e simbolo di padanità: il paradiso del geometra. Due ore scarse di bus da Porto Alegre, attraversando su una strada panoramica molto piacevole la celebre Serra Gaúcha, una zona collinare che può tutt'al piú ricordare gli Appennini o la Stiria, già l'arrivo al bus terminal è denso di promesse per il prosieguo della giornata, perché si tratta di una struttura tutta in legno, ispirata probabilmente a un rifugio del C.A.I. d'alta quota. Appena usciti sulla avenida Borges de Madeiros, la strada principale, ecco un autentico mercatino di Natale (perché andare fino a Salisburgo, o a Norimberga, ché fa freddo: venite qui, che almeno si va in giro in braghette e si beve birra ghiacciata invece del vin brulé, e si spende pure meno!) con tanto di casupole di legno dipinte di colori vivaci, neve finta, palloncini, alberelli, decorazioni, candeline e soprattutto Babbi Natale a profusione, di ogni dimensione. E' solo l'inizio, perché il resto è un susseguirsi ininterrotto, lungo un vialone a doppia carreggiata il cui spartitraffico è costituito, indovinate? da alberi di Natale (finti) al posto delle siepi, o da pupazzi di animali vestiti anche loro da Santa Klaus, di negozi, gallerie, centri commerciali, bar. Tra le chicche il magazzino di suovenir Black Forest, che pubblicizza con un enorme orologio a cucú piazzato sul marciapiede una orologeria tedesca specializzata per l'appunto in cucù e carillon, vezzosi chalet sivizzeri, ristoranti che servono fonduta e una quantità di cioccolaterie pseudo artigianali. Naturalmente si vendono maglioni di lana, sciarpe, perfino pellicce e sono sicuro che un'indagine più approfondita mi porterebbe a scovare anche chi propone, tra l'attrezzatura sportiva, un paio di sci o una slitta, trainata magari da un tiro a sei di zebú al posto delle renne. Quasi superfluo dire che in questo centro commerciale all'aperto non c'è una libreria neanche a piangere, e nemmeno mendicanti per le strade. Anche le persone di pelle più scura qui si sono diradate fino a sparire, probabilmente nelle cucine dei ristoranti o nei retrobottega. Eppure questo non  è, almeno tendenzialmente e per queste latitudini, un Paese razzista. Dopo aver visto fioccare anche la neve finta (coriandoli di poliestere o batuffoli di cotone sparati da un cannoncino, per la gioia e la meraviglia dei gitanti di ogni età), e rifiutandomi di devolvere per il pranzo un solo centavo a locali dal nome inquietante quali "Cantina pastasciutta", "Château de la fondue" e "Nonino mio", sono salito su un bus per visitare la vicina Canela, a 8 chilometri di distanza. Che è la versione popolare di Gramado ma dotata, sempre secondo i deliri degli autori della LP, di panorami stupendi sulle vallate circostanti. Probabilmente sono altrettanto stupefacenti certi funghi che hanno mangiato per sbaglio i suoi autori quando hanno perlustrato questi luoghi. Bella, invece, la Cascata do Caracol, nell'omonimo parco nazionale poco distante dalla città. Anche qui i preparativi per le feste natalizie imperversano, ma se non altro ci si limita, più congruamente per questi climi, a figure del presepe, benché dalle dimensioni gigantesche. Questa volta a fiancheggiare la strada principale sono della figure di angeli impagliati e vestiti di sacchi di iuta. In fondo, la improbabile Catedral de Pedra, che sembra costruita con dei Lego color canna di fucile, inesistenti in natura (leghiana). Il cibo della lanchonete (notare l'orrido anglofrancesismo - prezzo fisso, si mangia quanto si vuole, oppure un tanto al chilo: nei Paesi di lingua spagnola si chiama tenedor libre, ossia a forchetta libera) è decente, ma dopo due giorni garantisco che si hanno già a nausea polli, carne alla piastra, patate fritte, farina di manioca e brodaglia di fagioli scuri. L'insalata non c'è verso che la servano tagliata, e non solo qui: bisogna fare da sé. L'olio spacciato per essere d'oliva è in realtà soia quasi pura e ne contiene solo il 15%, quindi se ne fa volentieri a meno. Però il posto è frequentato da persone normali, perfino da neri senza che la gente si volti per strada, e come sempre gestori e camerieri sono simpatici e chiacchieroni, anche se qui in Brasile non è d'uso lasciare la mancia (mãos de vaca, mi hanno spiegato, è il termine locale per il milanese braccino corto). Per finire in bellezza, non poteva mancare nemmeno a Canela il mercatino con gli addobbi per alberello e presepe ma, soprattutto, l'autentica casa di Babbo Natale, in fianco alla quale ne troneggia un esemplare più imponente del David di Michelangelo. Per correttezza, bisogna dire che perlomeno da queste parti il Kitsch ha una sua giustificazione: non sanno di cosa si tratti, in sostanza, e quindi si inventano un Natale tutto loro. Noi siamo anche peggio: non solo importiamo festività fasulle come Halloween impestando vetrine con zucche vuote e candele e inventandoci ricorrenze celtiche mai esistite, ma riusciamo a falsificare anche il vero: un esempio per tutti è Venezia, alla mercé dei bottegai più avidi e spietati esistenti al mondo, dove si è riusciti ancora una trentina d'anni fa a resuscitare un carnevale dimenticato da duecento anni e farlo diventare un fenomeno mediatico e trasformare la città in un tetro smercio di paccottiglia e di baùte sempre piú grottesche. Hoje è sabado, amanhã domingo, salmodiava O Poeta Vinicius de Morães, con la sua voce soporifera. Saravá!

venerdì 16 novembre 2007

La "alegrense" progressista

PORTO ALEGRE - Comincio dalla capitale dello Stato più meridionale del Brasile, il Rio Grande do Sul, la ricognizione del Sud-SudEst del Paese, che mi porterà alla fine a San Paolo, la vera, scoppiettante, parossistica capitale del colosso sudamericano. Ben 36 ore il viaggio di trasferta da Asunción fino a qui, con due ore di sosta a Florianopolis, capitale di Santa Catarina dove, scendendo dal bus, ho scoperto che ieri era la Festa della Repubblica, con relativo ponte di fine settimana. Il problema è che in città non c'era un letto libero, essendo "Floripa", come la chiamano qui, anche il punto di ingresso dell'isola di Santa Catarina, parallela alla costa, una cinquantina di chilometri di lunghezza per circa dieci di larghezza media, paradiso tra l'altro dei surfisti, così che non mi ha stupito di vedere, oltre agli statunitensi, perfino gruppi di australiani da queste parti. In questo modo mi sono goduto il panorama della costiera gaucha, mai monotona per via del susseguirsi di insenature, rilievi, paludi, coltivazioni di riso, pascoli verdissimi, bovini, ovini e cavalli in libertà. Il tutto in una bella giornata, resa fresca dal vento sureño che da una settimana batte tutto il Cono Sur atlantico, che però all'interno ha portato anche notevoli acquazzoni, basse temperature e perfino nebbie. A Porto Alegre sono arrivato dunque ieri sera e naturalmente il centro era semideserto, e mi ha abbastanza colpito che, pur essendo una delle città più ricche del Brasile e in cui si vive comunque meglio, negli androni dei negozi non mancavano senza tetto che si arrangiavano per la notte. Questa mattina atmosfera completamente diversa: attorno al Mercado Publico, cuore della città a ridosso del porto, con la stazione di testa della metropolitana, e la Praça 15 de Novembro (ieri, per l'appunto), ferveva l'attività. Il Mercado, costruito nel 1869, ricorda quelli coperti europei, dalla Boquería di Barcellona a San Lorenzo di Firenze, e da queste parti, se si toglie qualche faccia più scura, anche per i lineamenti della gente sembra di essere in Europa. Questi due Stati in particolare, dal 1880 circa in poi, sono stati popolati quasi esclusivamente da italiani e tedeschi, che li hanno completamente trasformati. Tanto forte questa presenza, che non mancano città dove sono l'italiano (nella versione veneta, più che altro) e il tedesco la prima lingua ancora parlata. Non si può dire che Porto Alegre sia una bella città, ma oltre a conservare dei notevoli palazzi neoclassici e anche baroccheggianti, compensa ampiamente con la propria vivibilità, grazie anche a una posizione felice, sulla enorme Lagoa dos Patos (laguna delle anatre) e alla conformazione ondulata, su delle alture comunque dolci. Oltre a questo, un tenore di vita relativamente alto, mezzi pubblici che funzionano a meraviglia, traffico ordinato, ma soprattutto una vita una vita culturale intensa. Per puro caso sono capitato poco prima della chiusura, fra due giorni, della 6a Bienal do Mercosul, che oltre a due magnifici palazzi del centro occupa buona parte dei magazzini ristrutturati del vecchio porto, e che a mio parere può tranquillamente stare al livello di delle Biennali europee. A cominciare da quella veneziana, che è il solito carnevale massmediatico, occasione per sbrodolarsi addosso degli iniziati della pseudo cultura puzzona, italiota e non, autoreferenziali e adoratori del proprio ombelico, nell'arte come nella politica. Ovviamente, qui tutte le esposizioni sono gratuite e tutto il discorso nasce da una politica ben precisa e concordata con la cittadinanza, a partire dal progetto e dal suo finanziamento attraverso le imposte (i cittadini concorrono a vario livello alla definizione e all'approvazione del bilancio cittadino), di rigenerazione e valorizzazione del centro storico. Progressista da sempre, già nell'800 i farroupilhas (i malvestiti, come i sanculotti francesi e poi i descamisados argentini) si erano ribellati all'imperatore e a fine degli anni Settanta del '900 gli scioperi dei sindacati gauchos contribuirono non poco ad abbattere il regime militare, non dimenticando che dal 2001 Porto Alegre è anche sede del Forum Sociale Mondiale e che qui la corte suprema dello Stato già nel 2004 ha riconosciuto le unioni omosessuali, garantendo loro gli stessi diritti di quelle eterossessuali. Nel cattolicissimo Brasile. Nella Terra dei Cachi, invece, con al governo una coalizione sedicente progressista, invece...

martedì 13 novembre 2007

Poveri, ma belli

ASÚNCION - Pur provenendo dal Chaco argentino, una delle Provincie più povere del Paese, la prima impressione che si ha entrando in Paraguay è di ritrovarsi proiettati all'indietro di una quarantina d'anni. E questo nella capitale, perché la situazione che mi ricordo di aver riscontrato nei pressi di Encarnación, di fronte a Posadas, in occasione di una visita alle missioni gesuitiche (la più importante e meglio conservata quella di Trinidad) tre anni fa, nella campagna profonda, era di una arretratezza molto più accentuata. Il tutto dovuto alla storia di questo Paese, molto diversa da quella dei cugini rioplatensi e anche da quella degli altri confinanti. A cominciare dalla sua colonizzazione: i guaraní, il gruppo etnico predominante nella zona di Asunción (fondata nel 1537 dopo un tentativo andato a vuoto di stabilire una colonia permanente a Buenos Aires da parte delle truppe di Pedro de Mendoza), erano concilianti nei confronti degli spagnoli, alleandosi con essi contro le popolazioni nemiche che abitavano il Chaco profondo. In più, erano stanziali ma non radicati come le popolazioni andine con cui i colonizzatori ebbero a che fare sugli altipiani, ragione per cui spagnoli e guaraní si fusero, e questo produsse in breve tempo una società ibrida, caratterizzata da un'assimilazione culturale reciproca, in cui gli spagnoli svolsero il ruolo prima di capifamiglia, e poi quello politico dominante, ma senza sopraffazioni. Questo si riflette sia nella lingua: in Paraguay sono ufficali entrambe le lingue, che si sono influenzate a vicenda nella parlata comune, e anche le classi alte parlano guaranì; sia nella morfologia della pololazione attuale, in cui la maggioranza è così meticciata da poter quasi parlare di un'etnia a parte. E' anche vero che i guaraní sono più chiari e hanno lineamenti meno marcati delle popolazioni quechua o aymara delle zone andine, per cui il risultato medio è di persone con la pelle color del tè poco carico e in buona parte con gli occhi chiari, spesso verdi, davvero fuori dal comune. Degli europei addolciti, diciamo, o dei guarani europeizzati. Alti, ben porporzionati, a mio parere una popolazione mediamente bella. Un altro quarto della popolazione è diretta discendente degli immigrati eruopei dalle ultime decadi dell'800 in poi, parecchi gli italiani anche qui. Ci sono anche molti tedeschi, ma è una scioccheza affermare che siano tutti nazisti, come vuole il luogo comune. Anzi: l'immigrazione più massiccia fu quella dei mennoniti (una setta evangelica) nei primi anni Trenta, che andarono a colonizzare le zone più remote, spesso in conflitto con le tribù indie meno sviluppate (e non altrettanto tolleranti dei guaraní di 500 anni fa). In un Paese dalla tradizione dispotica, più che autoritaria, chiaro che con l'ascesa al potere nel 1954 del generale Alfredo Stroessner, che detenne il potere assoluto fino al 1989, anche gli ultimi resti della diaspora nazista abbia trovato una facile ospitalità. Un altro aspetto che distingue il Paraguay dai suoi vicini è l'isolamento, determinato da motivi geografici ma anche da una spiccata tendenza all'autarchia. L'indipendenza, nel 1811, venne dichiarata nella sostanziale indifferenza della Spagna, per cui questo territorio risultava insignificante da un puntio di vista strategico ed economico. Il risultato fu una prima dittatura, di fatto, dal 1814 al 1840 del Presidente Francia, che governò con lo pseudonimo di El Supremo: e non è uno scherzo. Conscio del fatto che il Paraguay non potesse competere coi vicini, sigillò di fatto il Paese, e promosse l'autarchia, ossia un'economia di sussistenza dove non esisteva, di fatto, il denaro. Caso unico in America Latina, espropriò le terre dei latifondisti, dei mercanti e perfino della chiesa, facendo dello Stato il massimo (perché unico) soggetto economico, poiché l'eccedenza dei prodotti agricoli era sotto suo totale controllo. Una società comunista ante litteram e di cui Karl Marx probabilmente nemmeno conosceva l'esistenza (e se sì, non l'avrebbe neanche presa in considerazione, deridendola), basata ovviamente su un potere dittatoriale. Come la storia ha puntualmente e ampiamente dimostrato, non si da una cosa senza l'altra. Dopo Francia, la dinastia Lopez. Il primo, Carlos Antonio, con le riserve statali accumulate da Francia promosse l'apertura all'esterno del Paese costruendo ferrovie (in Argentina, Cile e Bolivia se ne incaricarono gli inglesi, per motivi comerciali), fonderie, cantieri navali e perfino un telegrafo. Soprattutto organizzò un potente esercito, col quale il successore, il figlio Francisco Solano, andò alla guerra nel 1870 contro la Triplice Alleanza di Argentina, Brasile e Uruguay, perdendo 150.000 km quadrati, un terzo del territorio, e anche la maggior parte della popolazione attiva di sesso maschile. Come se non bastasse questo colpo, da cui il Paraguay non si è mai ripreso del tutto, nel 1932 la storia si ripetè con la guerra del Chaco contro la Bolivia, chiusa senza vincitori tre anni dopo e con l'assegnazione di tre quarti di questo territorio di fatto senza controllo al Paraguay. Mai chiaro il motivo di questa guerra, coi paraguaiani che sostenevano la colonizzazione del Chaco da parte dei mennoniti tedeschi e i boliviani che avevano alle spalle dei petrolieri statunitensi. Dal 1954, la dittatura di Stroessner, come ricordato, caduta la quale, grazie a un altro colpo di Stato militare, nell'Anno di Grazia 1989, la situazione è cambiata rispetto alla libertà di stampa ed espressione, ma non rispetto alla sostanza del potere, sempre saldamente nelle mani del Partido Colorado e dell'entourage di Stroessner. Ma veniamo ad Asunción, la capitale, che conta solo 500 mila abitanti (poco più di Resistencia, per intenderci, e meno della metà di Montevideo) e che sembra languire sulla sponda orientale del Paraná, da sempre l'unico porto del Paese. Caso anche questo unico dn quatsa partye di mondo, in Paraguay (poco più di 5 milioni di abitanti) solo il 50% della popolazione vive in città, contro l'82% circa di Argentina e Uruguay. Costruita su un promontorio che da sul fiume, la città ha la consueta pianta a griglia, resa però irregolare e finalmente un po' meno banale dalla conformazione del terreno, con salite e discese, comunque dolci. Non si può dire che la città sia del tutto brutta: ci sono, a macchie di leopardo, palazzi coloniali intreressanti, anche se spesso in rovina. Il palazzo presidenziale, che a me ricorda non so perché il castello di Miramare a Trieste, però in versione candida: sarà perché l'associo a una bomboniera, a uno scherzo kitsch, ad esempio, da sul fiume che quasi non si vede perché appena sotto la balaustra del vicino belvedere (la discesa verso il fiume è chiusa ben prima del tramonto da un'inferriata) si estende un agglomerato di baracche e un viluppo di piante che impedisce qualsiasi vista. Di fronte all'entrata del palazzo, un paio di case in stile coloniale ridipinte alla meno peggio con colori squillanti, e un altro paio decrepite e cadenti. Questo vale per tutto il resto della città, a parte i quartieri-bene che si estendono a Nord-Est. Anche questi non poi un granché: pure nelle avenidas alberate, da cui si dipartono vie ancora pavimentate a porfido e con villette prevalentemente a due piani assolutamente disomogenee (per fortuna: se no saremmo negi USA), i marciapiedi sono pieni di crateri e voragini come nemmeno quelli di Sarajevo dopo quasi quattro anni di assedio. Questo delle "veredas" è un angoscoso problema di tutta l'America Latina, ma che infastidisce ancora di più nei Paesi del Plata dove la loro pavimentazione originale è anche particolarmente gradevole. Alcuni grattacieli che sembrano costruiti con il carton-gesso, scrostati e semicadenti in stile oserei dire sovietico, negozi abbastanza squallidi, musei pochi e miseri, praticamente non si sa cosa fare. Colpisce la carenza di bar e di ristoranti almeno in centro (che si svuota col buio). In compenso, nelle poche "chopperie" (birrerie) aperte, ottima la birra alla spina, e qui la mano dei tedeschi si nota, come nella cucina che propone wuerstel, perfino nella versione bianca, e crauti fatti in casa, maiale affumicato e financo il celebre Eisbein berlinese. Eisbein a cui, per la cronaca, per la mia innata curiosità nonché golosità, non sono riuscito a rinunciare nemmeno con 30 gradi all'ombra. Al ristorante Munich: che è come mangiare la cassoeula o l'ossobuco con risotto da Giggi er carrettiere a Porta Metronia. Ma non ci sono solo influenze tedesche, nella gastronomia locale: anche i guaraní fanno la loro parte, ad esempio con le chipas, che sono delle specie di arancini con ripieni diversi (quello classico è di carne tritata e verdura) ma con l'impasto di mais anziché di riso e passati in forno invece che fritti. Quelli di Doña Chipa, un baracchino in pieno centro dove ho pranzato su uno sgabello, erano strepitosi. Il cambio è di 6000 guaraní per un euro, una prestazione peggiore perfino della nostra beneamata liretta: perlomeno non si deve fare incetta di spiccioli in moneta come in Argentina, e si ha la soddisfazione di tirare fuori rotoli di banconote (in realtà malconce e bisunte: fanno venire in mente i capelli di Gianni De Michelis, anche se sarebbero graficamente niente male) ogni volta che si paga qualcosa, come ai tempi della Chicago anni Trenta. Come accennato i paraguaiani portano in giro la loro povertà con molta eleganza e dignità, e la compensano con la bellezza dei tratti e la mitezza del carattere. A differenza di coloro che li hanno prevalentemente governati. Peccato che sembrano aver preso lezioni di guida dai vicini argentini: conducono qualsiasi automezzo come dei criminali, soprattutto in città: semafori e strisce pedonali sono considerati puri elementi decorativi o di arredo urbano, tuttalpiù percepiti come delle provocazioni. I pedoni che si avventurassero da queste parti sono avvertiti, gli automobilisti normali, anche! 

domenica 11 novembre 2007

Domenica corrientina


CORRIENTES - Mentre dalla Terra dei Cachi arrivavano notizie contraddittorie sulla morte di un tifoso laziale ucciso da due colpi "sparati per aria" da un agente della stradale nel corso di una rissa tra imbecilli laziali e juventini che si erano incontrati e fronteggiati nell'area di sosta di un autogrill, e mentre quell'inetto del ministro degli Interni Amato parla come sempre di "tragico errore", dimenticandosi impegni, promesse e dellle solite parole al vento pronunciate in seguito ai fatti di Catania dello scorso gennaio che già avevano portato alla sospensione del campionato (sulla questione, da tifoso e appassionato di calcio, nonché frequentatore di stadi rimando a quanto scritto da Vittorio Zucconi su Repubblica), ho preso il mio bel taxi collettivo e per l'equivalente di 50 centesimi di euro mi sono fatto trasportare a Corrientes, a 20 chilometri sull'altro lato del Paraná e situata sulle rive del fiume, a differenza di Resistencia che si trova più all'interno. Bellissimo il ponte, il primo sul Paraná in Argentina, lungo ben 17000 metri a una sola campata, intitolato, per un grande sforzo di fantasia, al generale Manuel Belgrano e inaugurato nel 1973 e che ha segnato la fine dell'isolamento di fatto delle Province di Corrientes e Misiones. Anch'essa capitale della Provincia omonima, la gentile Corrientes è una delle città più antiche del Paese, e sorge appena a Sud della confluenza del Grande Fiume con il Paraguay. Qui, nella sonnacchiosa atmosfera che si respira ancora negli isolati in stile coloniale del centro della città, soprattutto intorno al monastero di San Francisco e specialmente oggi, che è una assolata domenica priva di traffico e con le strade quasi deserte, Graham Greene aveva ambientato Il console onorario, che recentemente è stato trasposto anche in versione cinematografica, film in verità poco memorabile salvo l'interpretazione del grandissimo Michael Caine. Anche qui, male abituati ormai all'andazzo italiota, stupisce la cortesia e la gentilezza delle persone con cui si entra in contatto, dal tassista alla cameriera, al primo a cui chiedi un'informazione. Capita anzi spesso che ci sia qualcuno che, vedendoti indeciso e disorientato, si offra di darti aiuto o suggerimenti. A me ha fermato un signore che, dopo avermi chiesto se ero straniero e in visita di piacere alla città, ha esordito dicendo che a Corrientes "non c'`niente di preparato per il turista. E sa perché? Semplice: il turista non vota. E noi l'abbiamo fatto appena due settimane fa". In una giornata iniziata con pessime notizie in arrivo dall'Italia, il pensiero corre subito all'andazzo che ci è ben conosciuto. Mi confermava anche, con orgoglio "resistente", che la dirimpettaia del lato occidentale, nata da una costola di Corrientes, l'ha superata da un pezzo per abitanti e ricchezza, e che è una città italiana a tutti gli effetti, basta sentire la pronuncia, chiedendomi se mi ero accorto che in alcuni quartieri, tra cui quello in cui lui era cresciuto (anche se ora lavora "di qua"), l'italiano è tuttora la lingua parlata correntemente. No: però della predominanza di nomi e facce italiane, soprattutto settentrionali, a Resistencia, mi ero reso conto subito. Una tranquilla e placida domenica passeggiando per la città e sulla costanera, a vedere il movimento delle chiatte cariche di container sul fiume, uomini e ragazzi che pescano, altri che prendono il sole, tutti che bevono il mate, con calabaza, bombillas e termos di ordinanza sottobraccio. Nulla di speciale ma una giornata rilassante e gradevole in una città ospitale.

El Fogón de los Arrieros

RESISTENCIA - "Donde termina el sentido del humor, comienza el campo de concentración" - Ieri in tutta l'Argentina si festeggiava il Día de la tradición, cosa che ho appreso varcando l'ingresso della palazzina a due piani che ospita il Fogón de los Arrieros, istituzione cittadina di cui avevo già parlato nel post precedente. La ricorrenza cade nella data della nascita di José Hernandez nel 1834, l'autore del poema epico "Martìn Fierro" che canta il coraggio, l'indipendenza, lo stoicismo dei gauchos, celebrandone l'epopea, e considerato uno dei classici imprescindibili della letteratura nazionale. A parte una serie di statue completamente incongrue tra loro sul marciapiede antistante, campeggia il cartello di divieto d'entrata ai cacciatori e quello di benvenuti ai cani. Fernando, la mascotte a quattro zampe di Resistencia, da Plaza 5 de Mayo veniva in trasferta anche in Brown 350, a tre isolati di distanza, e gradiva in particolare le esecuzioni musicali. Ad accogliermi Raúl Maderna, di origini chiaramente lombarde, per quanto lontane, dirigente della Fondazione (attiva dal 1968) e che faceva gli onori di casa insieme alla moglie Maria Elena (santafesina e quindi, di rigore, d'origine piamontese). Di una gentilezza squisita: ero arrivato al Fogón per visitare il museo e bere qualcosa al bar, ignaro che fosse prevista una serata di musica: per l'occasione, un excursus fra tutti i generi tradizionali argentini, dallo scoppiettante e allegro chamamé marchio di fabbrica di Corrientes, dall'altro lato del fiume, con influenze guaraní oltre che brasiliane, almeno alle mie orecchie; alla cueca, tipica delle zone del Cuyo, di Salta e Jujuy, nel Nord Ovest ma diffusa in tutti i Paesi andini, dal Perú, alla Bolivia, al Cile; quindi la chacarera; la samba (o zamba) che non c'entra nulla con quello carioca; e naturalmente la milonga e il tango. Il tutto suonato e cantato e talvolta ballato da interpreti sia professionisti sia dilettanti. Poiché tutti i tavoli erano riservati, mi hanno trovato posto su un trespolo al banco del bar (la postazione che prediligo comunque, quando sono in perlustrazione) e Raúl ha trovato il tempo per farmi da guida in tutta la casa. A parte la quantità di quadri e statue di autori di tutte le province, un ammasso di oggetti strani, reperti, modernariato, targhe scherzose, souvenir di viaggio, fotografie, biglietti con massime, barzellette, schizzi, vecchie bottiglie, una raccolta di tazzine da caffè rastrellate nei bar di tutta l'Argentina, i guanti da pugilato di Carlos Monzón "manos de piedra", perfino una gallina dalle uova d'oro. Anche i bagni sono abbelliti da quadri, fotografie, ritagli di giornale, perfino vecchie scarpe da calcio. Ovviamente anche gli interni sono allestiti in maniera decisamente originale, impossibile da descrivere. Mi è venuta in mente la casa di Salvador Gaudí a Cadaqués, ma molto più vissuta e autentica. Mi sono stati raccontati alcuni particolari sulla storia della città e su questo posto. Innanzitutto è vero che il primo insediamento nella zona dell'attuale Resistencia fu una reducción gesuitica chiamata San Fernando del Rio Negro, ma si trattava di poco più che un accampamento. La fondazione della città viene considerata l'Arrivo dei Friulani, nella penultima decade dell'800 (Raúl non si ricordava l'anno preciso), avventura che ha assunto i contorni del mito: dai loro racconti, epica non è stata tanto la traversata dell'Atlantico, e nemmeno così memorabili l'arrivo attorno a Natale a Buenos Aires, all'inizio dell'estate australe, e la quarantena a cui venivano sottoposti gli immigrati al "Hotel de los Inmigrantes" nel porto della Capital Federal, oggi trasformato in museo, ma la risalita del Paraná sui barconi per circa mille chilometri facendosi largo anche a colpi di machete tra le piante acquatiche e miriadi di insetti grossi come piccioni, nella stagione più torrida, con 45 gradi all'ombra e il 100% di umidità, reali e non percepiti, era stata eroica. I pioneri del Fogón furono invece due fratelli trasferitisi nel Chaco da Rosario nella seconda metà degli anni Trenta, Aldo ed Efrain Boglietti, e la loro casa divenne ben presto ritrovo di amici. Che si radunavano attorno alla "barra" del bar come i gauchos arrieros, quelli he conducono a cavallo le mandrie al pascolo attorno al fogón, la sera, a bere e chiacchierare (una scritta dietro al bar avverte che è vietata la vendita di bevande lattee dopo le 22 ai maggiori di 18 anni). Anche il fogòn dei gauchos, peraltro, ha qualche analogia con il fogolar dei furlani. Quando Efrain si sposò, alla guida di questo strano club ad Aldo si aggiunse lo scultore e poeta Juan de Diós Mena, anche lui rosarino, e nel 1943 venne fondato il Fogón. Tempio dell'amicizia, istituzione culturale, club, è studio per gli artisti, palcoscenico per gli attori e tribuna per dissertatori e poeti. E' tutto questo insieme, ma in realtà realizza uno stile di vita. Basato sull'idea che l'arte è un fattore vitale nello sviluppo della nazione e nell'affermazione della sua identità, dal 1968 il Fogón del los arrieros è una Fondazione con una varietà di attività che spazia dalle visite commentate al museo, ai corsi e laboratori, alle proiezioni cinematografiche e audiovisuali. Il tutto, fra l'altro, a prezzi irrisori: 5 pesos (poco più di un euro) l'entrata normale, ieri eccezionalmente 10 per lo spettacolo, mentre le consumazioni hanno i prezzi di un qualsiasi bar e il servizio è  efficiente, educato e famigliare al contempo. Quattro ore di spettacolo senza sosta, atmosfera davvero amichevole e per nulla forzata, persone squisite di ogni età, gli ospiti stranieri sono particolarmente benvenuti (c'erano anche alcuni spagnoli e due tedeschi), mi ci è voluto poco per fare un raffronto con il nostro ambiente sedicente cultural-artistico di salottieri, puzzoni autoreferenziali, tromboni e vipperia televisionata da strapazzo, in buona parte onanisti mentali. Ecco cosa può riservarti una città di provincia del cosiddetto Terzo Mondo.


sabato 10 novembre 2007

La città, le statue e i cani


RESISTENCIA - L'arrivo nella capoluogo del Chaco, una delle Province più povere dell'Argentina, che si estende a sud del confine col Paraguay fino alla confluenza tra il fiume omonimo e il Paraná, che si fondono poco a Nord della dirimpettaia Corrientes, non è avvenuto sotto i migliori auspici: c'erano stati nubifragi per tutta la notte avevano dievlto riempito la città di pozzanghere che sembravano stagni, divelto alberi, sparso foglie e fango ovunque. Cielo plumbeo, nuvole ad altezza d'uomo, si potrebbe dire. Inoltre stanchezza e umore cupo. Il primo impatto è stato quindi con una città semideserta e all'apparenza trascurata. Resistencia ha origine nel 1750 come reducción gesuitica, e la rapida crescita fu dovuta alla lavorazione del tannino, utilizzato nella concia delle pelli e che viene estratto dal quabracho (letteralmente spezza-ace) di cui era ricca tutta la regione del Chaco, il quale venne di fatto colonizzato e deforestato dai taglialegna di Corrientes, che alla fine ebbero ragione di questa boscaglia spinosa e impraticabile e di condizioni climatiche e ambientali decisamente avverse. Lo sviluppo agricolo della regione ha avuto luogo dopo il 1930 grazie alla produzione del cotone e del girasole, altre piante la cui coltivazione non richiede molta acqua, e grazie all'arrivo di coloni di origine prevalentemente centroeuropea. Resistencia, sul Paraná, ne è e dunque il capoluogo. Tra i nomi degli insediamenti attraversati questa notte proveniente da Salta, nomi programmatici come Pampa del Infierno, Rio Muerto, Pampa de los Guanacos e Monte Quemado. E a prima vista la capitale non promette meglio. Ma la sua sostanziale anonimità è riscattata dalla vitalità e dal buon carattere dei suoi abitanti e dal loro amore per l'arte, in particolare la scultura, e per i cani. Già gli argentini hanno una predilezione particolare per questi animali (per i cavalli una sorta di idolatria), da caccia o da difesa, ma qui si tratta di cani senza padrone, che più che randagi possono essere definiti degli anarchici, assolutamente socievoli e ragionevolmente puliti nonostante la vita da strada. Mi hanno ricordato i meravigliosi cani di Pantelleria, quelli che adottano i turisti "a tempo". Esemplare la storia di "Fernando", che tra gli Anni 50 e 60 aveva eletto come domocilio la centrale Plaza de Mayo, e aveva stretto amicizia con un banchiere che ogni mattina gli concedeva di entarre nel suo ufficio per fare colazione insieme. Divenne inevitabilmente la mascotte di tutta la città e alla sua morte la banda municipale suonò la marcia funebre e la città si mise a lutto. E' immortalato in una statua del noto scultore Victor Marchese situata prporio davanti alla Casa de Gobierno e la sua tomba si trova al Fogón de los arrieros, una curioso museo caratterizzato da una miscellanea di generi che funge anche da centro culturale, galleria d'arte e da bar. E qui veniamo alla scultura. Il fondatore del locale, che dal 1943 a oggi è il centro propulsivo della vita artistica cittadina e regionale, Aldo Boglietti, fu anche colui che promosse l'immagine di Resistencia come museo all'aperto, per cui oggi si possono vedere oltre 300 opere scultoree assolutamente eterogenee sparse per tutte le vie del centro: si va dal figurativo al sacro, all'astratto, al commemorativo (Eva Perón) e non manca naturalmente l'esemplare equestre: San Martìn nel mezzo della Plaza 5 de Mayo, che occupando ben quattro cuadras (isolati) risulta essere una delle più estese di tutto il Sud America. Ma Resistenca ha dato i natali, nel 1947, anche a uno dei più noti e validi scrittori argentini, Mempo Giardnnelli, conosciuto in Italia soprattutto per Luna Calda, Impossibile equilibrio, La rivoluzione in biclcletta e Il decimo inferno, tutti ambientati in un torrido e sonnolento Chaco, imporvvisamente scosso da passioni incendiarie ed eventi strabillianti e grotteschi. Purtroppo i lavori di sistemazione del palazzo in cui ha sede la sua Fondazione letterararia siano attualmente fermi per mancanza di fondi. Un peccato perché il personaggio è una fucina di iniziative e la vita culturale della città ne avrebbe ulteriore giovamento. Nel tardo pomeriggio, spazzate le nubi dal fresco vento del sud, con il cielo sereno e un tramonto mozzafiato anche Resistencia è apparsa più bella e qualsiasi malumore non può che essere passeggero, come le nuvole di stamattina!

venerdì 9 novembre 2007

Hic Rhodu, hic Salta!


SALTA - Dopo un viaggio di 8 ore fra fertili vallate (nella zona intorno a Catamarca è diffuso l'ulivo, mentre in tutta la regione vengono prodotti vini di qualità, che possono rivaleggiare con quelli di Mendoza e con quelli, a mio parere sopravvalutati, cileni: del resto il tipo di terreno e di clima è simile) e precordigliera, sono giunto ancora ieri pomeriggio, dopo una breve sosta a Tucumán, in questa che è senz'altro la città più vitale e dinamica del Nord-Ovest argentino. Oltre mezzo milione di abitanti, un flusso continuo da e verso la Bolivia, ma anche con il vicino Cile, è stata fondata nel 1582 da Hernandez de Lerma nell'omonima valle, coronata da alture boscose, dal clima sempre primaverile e particolarmente fertile, in esecuzione del piano strategico del vicerè Francisco de Toledo, che prevedeva la costruzione di un nuovo insediamento sulla via di comunicazione fra l'Alto Perú e il Rio de la Plata, dove fosse possibile la coltivazione di piante che non attecchivano nelle gelide Punas (altipiani) boliviane. Situata comunque a 1214 metri sul livello del mare, e costruita immancabilmente con uno schema a griglia, 36 isolati disposti oridnatamente a rettangolo, la città si è sviluppata rapidamente grazie ai commerci e alle necessità di approvigionamento, di prodotti alimentari ma anche di muli e cavalli che venivano allevati qui, della zona mineraria a Nord, che aveva e ha tuttora come epicentro Potosí, seguendone le sorti progressivamente declinanti, con una perdita di importanza accentutasi dopo l'Indipendenza e lo spostamento a Est del baricentro della nazione. E' tornata poi a risollevarsi con il prolungamento, a fine '800, della Ferrovia Belgrano, che ha dato uno sbocco alle nuove coltivazioni di zucchero. Di ritorno dopo dieci anni, ho avuto la conferma di quanto mi era stato detto, ovvero che si era proceduto a una serie di restauri e di recuperi che ne hanno fatto una città ancora più piacevole e vivibile di quanto ricordassi: ora il turismo costituisce sicuramente un 'attività di primaria importanza (e finalmente ho avvistato qualche esemplare di viaggiatore anche fuori stagione). Ho altresì l'impressione che non solo el campo, l'Argentina agricola, abbia assorbito meglio i colpi della micidiale crisi dell'estate 2001/2002 col Paese che aveva dichiarato bancarotta, ma anche alcuni centri della province che vivono essenzialmente sul settore primario. Come già accennato, le regioni del Nord-Ovest sono molto più vicine alle tradizioni delle regioni andine che non al resto dell'Argentina pampeana e dell'Atlantico, di impronta europea, italiana in particolare prima ancora che iberica. Lo si nota dai lineamenti delle persone, in quanto ormai qui predomina l'elemento indigeno, come dalla stessa gastronomia basata sul mais e sulla patata, con la carne di manzi Angus e Hereford sostituita da lama e capretto e che si fa speziata quando non piccante. Nascono qui le celebri empanadas (sorta di panzerotti ripieni di carne tritata e verdura, talvolta uova, fatte al forno o fritte) e il locro, una zuppa a base di mais con carne stufata. Ricca anche l'offerta culturale: ottimo il Museo Histórico del Norte, ospitato nello splendido palazzo settecentesco del Cabildo (municipio), che da sulla piazza principale (qui 9 de Julio: a San Martín sono dedicati l'avenida più importante e il parco: la statua di rito doveva pur essere piazzata in un luogo privilegiato) e bellissima una mostra allestita dal Governo della Provincia: "Prima dell'America - Simboli del culto e del potere nelle culture pre-ispaniche". Raramente ho visto una raccolta di reperti così ben conservati. Infine, il tanto decantato aspetto "coloniale" della città non deriva dall'autenticità di edifici d'epoca, quanto da una sorta di restauración nacionalista che ha avuto luogo negli anni Trenta come reazione all'eccesso europeizzante di moda a partire della fine dell'800, nel periodo della più grandi ondate d'immigrazione, restauración che ha riguardato anche l'architettura, e che incoraggiava il recupero e il riscatto dei valori del passato, quello coloniale e criollo, s'intende. Mi ha fatto molto piacere rivedere la città, che possiede anche dei dintorni magnifici (poco distanti la celeberrima Quebrada de Humahuaca e il percorso ferroviario d'altura noto come Tren a las Nubes), ma nel pomeriggio mi aspetta l'avventura della traversata del Grande Chaco, da qui a Resistencia, sul Paraná: 13 ore di bus sulla Ruta Nacional 16 nel nulla assoluto. Il percorso a Nord del Rio Bermejo, a ridosso del confine boliviano, da Enbracación a Formosa sulla RN 81, è spesso intransitabile e decisamente più a rischio: per questa volta mi accontento!